domenica 28 maggio 2017

UNA DEDICA PER EMILIO SPROCCATI



Per chi (come me) è legato da un profondo affetto sedimentato nella memoria, la piú intima e remota, quella dell’infanzia, per chi ne ricorda ancora il respiro ansimante, quasi un sibilo a fior di labbra, ma sempre pronto a mimetizzarsi in uno zufolo canoro, per chi lo rivede oggi nelle nebbie del ricordo come in un alone di magia e d’altri mondi, cosí lontani, con il mozzicone tenuto tra i denti e forse già spento (mi par di poter dire: nazionali semplici, senza filtro), con la tavolozza poggiata su un ripiano e martoriata di paste cromatiche, macchia sopra macchia, con il pennello vibrante tra le dita e con quello sguardo benigno (che mai cancelleranno incuria o tempo) per il nipotino di otto anni inopinatamente piombato nella stanza adibita a studio, per chi lo ha vissuto e ancora lo vive e lo “sente” in quel modo, sarà ben difficile tracciare le linee di un plausibile discorso su Emilio Sproccati, pittore contadino e uomo raffinato, appassionato d’arte fino allo spasimo, e malato di dolcezza, di stramberia, di alterità. Era nato figlio di mezzadri, e destinato alla vita di tutti i suoi simili, ma fin da adolescente esorbitò – non è dato comprendere perché – da quel destino e da quegli orizzonti fatti di schiene flesse e di scarpe infangate, di aie e di fienili, di puzzo di sterco di vacca e di meravigliosi profumi di frutta. Emilio, pecora nera nel gregge di famiglia, imprevedibilmente prese a guardar pittori, a leggere libri e a tentare la via del decoratore, fino a fuggire in quella che per lui era una metropoli ricca d’opportunità, Bologna, per poi tornare al paese forzato dalla fame e dalla disperazione. Ma, ecco, egli non si diede per vinto. Si fingeva falegname (per la donna di cui si era innamorato e per i figli da lei partoriti) ma faceva il pittore, e per tutti, in fondo, nel paese, era proprio “il pittore”. E da buon pittore, che deve capire la pittura, si recava alle Biennali veneziane su una lambretta dell’immediato dopoguerra, dove (corre voce) vide Pollock e lo trovò, come è ovvio, incomprensibile. Ma è sicuro che a un certo punto si imbatté in Morandi e lo trovò intrigante, e che prima ancora aveva veduto De Pisis, apprezzandolo. Dipingeva tutti i giorni, specie nei festivi, e forse attraverso le immagini dei suoi quadri cercava il senso riposto dei luoghi in cui era nato, dei pioppi e dei salici, delle case coloniche, delle strade sterrate serpeggianti ai bordi dei canali, verso il Palazzone o la Vallazza. E alle­stiva – proprio come Morandi e De Pisis – vecchie brocche un poco rovinate, lattine di olio di semi Topazio e aringhe sulla carta gialla del pescivendolo, provvisoriamente sot­tratte alla padella per essere elette a idoli del quotidiano, a modelli dignitosi di natura morta, che per lui era piú viva di tutti i viventi che lo circondavano (senza capirlo). Un uomo strano e straordinario, un artista autentico – se questa parola ha ancora un senso – in un mondo che di autentico comin­ciava a non aver piú nulla. Un uomo assur­do, venuto da chissà dove e capitato qui tra noi cosí, come una meteora, o piú semplicemente per uno di quei misteri dell’umano che non hanno spiegazione alcuna.

PER EMILIO VILLA – CONVEGNO DI FIRENZE 2004





Si tratta dell’occasione in cui sentii parlare per la prima volta del poeta: era il 1978 o il 1979. E fu quando, durante una certa zotica cena di gruppo, di quelle classiche della mondanità artistico-espositiva-bianalesca, venne chiesto al nostro anfitrione – che (guarda caso) era proprio Mario Diacono, allora titolare di uno spazio bolo­gnese deputato alla pittura d’avanguardia — venne chiesto, dicevo, quale fosse, al di lui avviso, il piú grande scrittore italiano del secolo. E Diacono, di cui ero amico e conoscevo la biografia, invece di rispondere (come a me pareva logi­co) con il nome di Ungaretti, sibilò d’un fiato un suono che nessuno, in quel consesso un poco idiota, conosceva, generando come d’incanto un brivido di smarrimento collettivo. Ricordo che io, ventenne ingenuo, non seppi pensare ad altro che alla curiosa (parziale) omonimia con uno degli allora piú glorificati figuri della canzonetta italiana popolare, a me odiosissimo (naturalmente): il Villa sí, ma Claudio e non Emilio, come è ovvio.
Il giorno dopo, o comunque di lí a poco, pretesi esaurienti illustrazioni dal Diacono medesimo, ed ebbi cosí notizie di prima mano sull’uomo e sull’artista. Mi fu segnalata l’esistenza dell’edizione Feltrinelli dell’Odissea, con lo stupefacente delirio filologico che introduce la sorprendente traduzione villana. Mi regalò anche la plaquette Verboracula, dall’originale e oggi introvabile collezione di «Tau/ma», rivista ch’era diretta dallo stesso Diacono, la quale plaquette suscitò in me un entusiasmo forse disdicevole, e di cui reca fin troppo palese la nefasta traccia un testo che scrissi allora e che pubblicai qualche anno dopo, nella mia prima raccolticcia di poesiucole, quella spatolata da Adriano nelle sue edizioni di «Tam Tam» (1983).
In quegli anni mi dedicai a reperire del Gran Villa tutto ciò che potei, divenendo in breve un suo totale apologeta, e cercai anche di parlarne piú che mi riusciva con tutti coloro che minimamente reputavo degni di udirne il Verbo senza stramazzare al suolo, facendo in qualche occasione però impazzire le migliori tra le mie studentesse dell’Accademia di Belle Arti presso cui insegnavo (a Vene­zia), con la lettura — ad esempio — degli hypno-eroto-anatomico-machico testi dedicati a Burri, della cui combustione esistenzial-pittorica Villa fu il primo grande scopritore in assoluto. —> CIT. DAGLI ATTRIBUTI, su BURRI. Attributi dell’arte odierna... Sí, gli attributi e i controfiocchi invero, ma di chi gli ha scritti!
Poi lo conobbi, anche, il nostro, e fu nel 1985: fu al Teatro Valli di Reggio Emilia, durante l’inaugurazione (ancóra) di una mostra. Il mostro me lo presentò Claudio Parmiggiani, un altro amico dell’epoca, vedendo che guardavo con stupore un uomo pasciuto e dall’aria decisamente gaudente che già qualcun altro aveva salutato come il poeta, e che mi riusciva cosí diverso dall’immagine fisica che arbitrariamente me ne ero costruita a partire dai suoi testi, barocchi quanto basta, ma altresí sinuosi, appuntiti, acutissimi, al limite ascetici. Villa fu con me (come con tutti, credo) drasticamente delizioso: mi magnificò, mentre insieme le degustavamo, le virtú apotropaiche delle “creste di gallo”, una pietanza da buffet emiliano che, dopo quella volta a Reggio, non ho piú assaggiato né visto; e mi espose, in mezz’ora, alcune colossali teorie relative all’aramaico e al suo rapporto con il sanscrito, alla mitologia greca, al significato di certe metafore oscene nel Vangelo di San Giovanni, agli equivoci della filologia applicata ai testi biblici, alle misteriose relazioni tra la mistica persiana e la lingua dei latini, e ad alcuni altri problemucci di tal fatta! Ma, si noti bene, allorché la sapienza brillava oracolare e fascinosa in ogni villana postilla, il tono e il lessico erano tuttavia di una colloquialità amiconesca: senza pedanteria alcuna, niente di didattico o di compiaciuto, e anzi con uno tocco soave nell’esposizione che gli invidiai immediatamente (insieme alla sua caotica cultura).
Cosí parlò Emilio Villa: sovente biascicando le sillabe intorno a qualche ghiottoneria nel frattempo masticata, interrotto solo dall’orlo del bicchiere sulle labbra, e sempre del resto intercalando osservazioni sulla qualità delle vivande di cui anch’io, nel frattempo, mi ingozzavo come nella gioia di un volontario naufragio. Villa parlò. E poi disse ancóra qualcosa intorno a Mallarmé, e quello, ve l’assicuro, fu come  il culmine del possibile.
E oggi, vent’anni dopo – mentre lui, scontato un indegno purgatorio di vita vegetativa tra brodetti scialbi e (presumo) ignominiosi clisteri, alla fine, grazie a Dio, se ne è andato in un turbine di ninfe dalle vulve fanciullesche – ecco, piano piano, bisbiglio dopo bisbiglio, voce dopo voce, articolo dopo articolo, libro dopo libro, convegno dopo convegno (come giustamente qui si testimonia), la levatura immensa del poeta nostro del secondo Novecento comincia a emergere anche nella coscienza sporca dei chierici di regime e degli intellettuali da guinzaglio. Ed è già qualcosa... E non è che l’inizio... Che aggiungere? Prosit, Emilio!


                                                                                                        


LINGUISTICA E POESIA CONCRETA

Qualche nota intorno allo "Zeroglifico" di Adriano Spatola

[1989] 



La linguistica strutturale individua per il segno verbale cinque attributi di fondo, in parte condivisi con altri sistemi segnici, in parte esclusivi della parola e dei suoi specifici procedimenti. D’altro canto, la teoria della verbovisualità — cosí come viene a proporsi nella seconda metà del nostro secolo, quindi dalla nascita del “concretismo” in poi — attua un violento attacco ai metodi della scrittura classica, con il chiaro scopo di portare alle estreme conseguenze ciò che io credo si possa interpretare quale vocazione latente della poesia [i]. Pur mantenendo ben ferma la centralità dell’elemento-parola, la poesia concreta si definisce, infatti, nei termini di una crisi del sistema, poiché oscilla tra l’ideologia dell’interferenza con altri tipi di comunicazione (primo fra tutti il linguaggio iconico) e la tensione verso il dissolvimento globale del segno nella nube di un impiego indeterminato, estraneo alle crucialità del “codice”.
Più in particolare, e con maggiore esattezza, occorre dire che laddove il codice è forte — ossia vincolante — il concretismo cospira a misconoscerne l’applicabilità, cosí da negarlo in quanto evento normativo; mentre, per contro, rispetto ai nessi nei quali il codice agisce poco o nulla (o comunque risulta meno determinante) esso sembra intenzionato a recuperarne la presenza piena. Un paradosso solo apparente: giacché il bersaglio scelto, ad ogni modo, è il sistema della scrittura che la tradizione ci consegna.
Ciò che mi preme qui di dimostrare — utilizzando come punti di riferimento la “base” originaria del concretismo da un lato, la posizione “avanzata” di Adriano Spatola dall’altro — è che le cinque proprietà segnalate dai linguisti contribuiscono a formare altrettanti sustrati problematici di grande rilievo, assolutamente imprescindibili se si vuol comprendere il ruolo storico della poesia visuale.

a. Impiego di elementi fonici non codificabili. E’ un tratto distintivo della comunicazione verbale vera e propria (ossia del segno fonetico) che trova poca corrispondenza nell’ipercodice della scrittura. Quest’ultimo, essendo nient’altro che ulteriore codificazione di un sistema preesistente, tralascia per propria natura i cosí detti “fatti sovrasegmentali”: il tono della voce, le variazioni volumetriche, le pausazioni significative, gli accenti locali, i lapsus, le imperfezioni sintattiche e di pronuncia, ecc.
E’ qui che la poesia concreta, sulla scorta di certe indicazioni del futurismo e del dadaismo[ii], si pone in competizione con il livello primario della fonesi e tenta di recuperare alla scrittura possibilità espressive che parrebbero esserle precluse. Che i caratteri prosodici della poesia classica — verso, ritmo, rima, assonanza, suddivisioni strofiche — possano ammettere risvolti di rimando alla sovrasegmentalità del “parlato” (e forse addirittura origini ad essa collegate) è dato acquisito. Ma il concretismo agisce, da tale punto di vista, verso una risemantizzazione “normativa” della struttura tipografica. La rottura dell’unità minima del verso non deve trarre in inganno. E’ proprio il rigetto di regole standardizzate nella tradizione (e ormai lontane dal loro iniziale — plausibile — “motivo”) che permette ai vari Gomringer, De Campos, Pignatari, un controllo maggiore della semiosi scritturale e, in definitiva, la possibilità di recuperare ad essa almeno una parte di ciò che il suono “può dire”.
Al di là di qualsivoglia intenzione referenziale — comunque non saliente nelle pratiche del concretismo — sta di fatto l’incremento della capacità significante della parola scritta. La scelta di utilizzare esclusivamente la tipografia, per lo più con segni esteticamente neutri, tipica della prima stagione concreta, dal 1952 al 1958 circa, si spiega proprio in questa maniera: la grafia manuale, in quanto portatrice di istanze individuali e psicologiche, è “sovrasegmentale” rispetto alla scrittura: ma tale devianza rimane tutta inclusa nei limiti storici dell’ipercodice, e costituisce al più un elemento di disturbo nei confronti di una ristrutturazione scientifica del medesimo.

b. Arbitrarietà e convenzionalità del segno. A prescindere dal “caso limite” dell’onomatopea — del quale, non “a caso” i futuristi fecero un casus belli — il linguaggio verbale, e con esso la scrittura fonetica, va del tutto esente dal sospetto di referenzialità interna (ossia di intima motivazione) che in qualche modo caratterizza, invece, il segno iconico[iii]. La poesia dell’avanguardia storica, nella sua più o meno spiccata tendenza a conciliare codice verbale e codice plastico, ovviamente prende di mira l’idea della assoluta convenzionalità del linguaggio. Da Velimir Chlebnikov, pronto a far discendere la forma stessa dell’alfabeto da princípi analogici che regolerebbero l’universo, a Ezra Pound, che si serví di supporti ideogrammatici per “ancorare” il senso a qualcosa di meno labile che un puro arbitrio, la questione del reperimento di un “rapporto causale” tra espressione e contenuto è nucleo elementare di tutta la ricerca poetica del ventesimo secolo.
Bisogna però avvertire che proprio i fondatori del concretismo si disinteressano alquanto del problema. Ad esempio, il celebre “pezzo” di Gomringer intitolato al Silenzio (1953) impiega vie non mimetiche, e nemmeno direttamente analogiche, per attuare una trasmissione del significato attraverso la messa a vista del corpo del significante:
           
                                          Silenzio  Silenzio  Silenzio
                                           Silenzio  Silenzio  Silenzio
                                           Silenzio                    Silenzio
                                           Silenzio  Silenzio  Silenzio
                                           Silenzio  Silenzio  Silenzio

Qui lo scarto visuale, e cioè il “vuoto” che sta al centro della composizione, produce l’evocazione “altra”, ma forse la sola autentica, del concetto che il segno verbale cerca di veicolare (e tuttavia trasgredisce, parlando). Tale scarto non imita alcunché: risponde a convenzione almeno quanto la scrittura. Occorrerà attendere Ian Hamilton Finlay, con il suo Black Block, perché la poesia concreta inizi ad occuparsi — attraverso espedienti tautologici — di “necessità” e di “causalità” del rapporto segnico.
Ad ogni modo, l’accentuazione degli aspetti concreti del materiale non è affatto implicitamente portatrice di una ideologia “creatilea” del medesimo[iv]. Nell’età contemporanea il linguaggio iconico, attraverso l’astrattismo, si è a sua volta emancipato da ogni obbligo imitativo: cosí una corretta interpretazione verbovisuale della scrittura può andare del tutto scevra da implicazioni mimetiche ed essere invece perfettamente accordata con (nuove e diverse) convenzioni codificanti.

c. Strutturalità del significante. Ovvero presenza della doppia articolazione, il rapporto tra un “sottosistema” fonematico e un “sovrasistema” monematico. Su questo punto interviene la grande novità di Adriano Spatola. Non che prima di lui, e accanto a lui, non si abbiano (avuti) prodotti letterari capaci di mettere in crisi la strutturazione del significante in “unità minime di suono dotate di senso” (monemi) a sua volta formate di “unità minime di suono non dotate di senso” (fonemi). Ma con Spatola la decostruzione è affrontata in maniera quanto mai precisa: attraverso un incessante lavoro di erosione, pragmaticamente realizzato mediante le forbici, vengono aboliti gli eventi che nella scrittura corrispondono alle unità di suono, i grafemi (più banalmente: segni alfabetici). E il superamento della “barriera” del grafema diviene irrinunciabile proprio rispetto a una possibile critica radicale del concretismo, delle sue finalità e dei mezzi impiegati per conseguirle. La prima edizione di Zeroglifico [v] già evidenziava tale superamento, ossia si basava sulla rivoluzionaria scomposizione della lettera alfabetica in entità minori, frammenti appena riconoscibili di un materiale che ripudia la sua stessa leggibilità: la quale può essere restaurata solo per via intuitiva, talora grazie alla forza propria di un segno mantenuto al limite (i cui tratti, vale a dire, mantengono qualcosa del grafema), altrove per associazione di idee o per induzione critica[vi]. E ciò nonostante l’appartenenza delle tavole di Spatola all’ambito poesia concreta è fuori discussione, dato che la materia da lui impiegata è sempre assolutamente verbale, e ancor più è sempre assolutamente tipografica.
Ma una simile materia, fatto altrettanto indiscutibile, abdica non solo alle proprie facoltà semantiche tradizionali, ma perfino alla propria decifrabilità immediata. Le pre-forme di cui sono composti i “testi” di Spatola stanno alle lettere conchiuse come tracce indeterminate del campo fonetico stanno ai segnali sonori strutturati in fonemi. Sempre che sia possibile, appunto, trasferire istanze relative al piano orale su quello dei fenomeni grafici: ma va da sé che solo tale trasposizione può asseverare lo statuto linguistico-verbale degli “zeroglifici”, i quali, perciò, si fanno portatori di una metaforicità non solo (genericamente) scritturale, ma più precisamente fonetica. La dialettica che instaurano, tra superamento della doppia articolazione del segno e recupero metaforico del suono, individua una nuova poetica concretista, capace tra l’altro di tradurre in ritmo musicale l’andamento visivo della “frase” dealfabetizzata. Secondo lo stesso Spatola si tratta di creare un

«mosaico di frammenti decontestualizzati [che] si costruiscono nello spazio bidimensionale come fraseggio, nel senso che si dà in musica a questo termine»[vii].


d. Carattere “discreto” del segno. Il principio della strutturalità del significante e della sua costruzione a partire da unità combinate tra di loro comporta l’esclusione di qualsiasi pertinenza dei fatti dimensionali e quantitativi. In altre parole, la macchina del linguaggio verbale ignora totalmente ragioni di proporzione tra grandezze del significante e grandezze del significato. Essa funziona come un insieme di entità combinatorie sempre uguali a se stesse se prese singolarmente: ovvero, con terminologia tratta dall’informatica, come sistema “digitale” e non “analogico”.
Il lavoro di Spatola, anche in questo caso, procede contro il principio normale della lingua, e si offre (semmai) proprio nei modi di un sistema analogico. L’antilinguaggio dello Zeroglifico, evocando a livello programmatico l’idea di una comunicazione realizzata per simboli visuali (geroglifico, sacra incisione) e insieme il grado “zero” della scrittura, instaura su un andamento pseudo-musicale il proprio continuum espressivo. Ogni segno è solo forzatamente un’unità (cosí come in musica solo forzatamente si può parlare di singola nota) e la tavola dà luogo a un tutto unitario: all’interno del quale appaiono segni talmente con/fusi tra loro da risultare completamente inscindibili. Il poeta ha lavorato di “composizione”, dunque ha giustapposto entità frammentarie ottenendone una specie di somma. Ma nel suo lavoro ogni parte vive della relazione con le altre, e il carattere strutturale del “testo” è recuperato su un piano diverso da quello che compete alla parola. E’ piuttosto la medesima strutturalità della grande pittura astratta, da Malevič a Matisse. La colla e le forbici permettono a Spatola di intervenire al di là del grafema, prima e dopo il confine dell’unità alfabetica, ritessendo la trama del linguaggio attraverso istintivi assestamenti del materiale deflagrato, dunque concepito come continuo .

e. Linearità del messaggio. Il segno verbale si dipana su un ordine temporale univoco e irreversibile. La posizione di ciascun elemento rispetto alla linea del tempo (rispetto alla “catena parlata” nel suo decorso cronologico) non è mai irrilevante per la trasmissione del significato; e in scrittura fonetica tale temporalità viene ricodificata nello spazio: per le lingue occidentali, lungo un percorso lineare che va da sinistra a destra e, se è necessario, dall’alto in basso.
A questo principio tutta la ricerca poetico-visuale ha opposto un netto rifiuto, innalzando a propria norma ineludibile la “simultaneità della fruizione” che caratterizza il segno iconico. Ma ciò non è avvenuto nella stessa misura e nello stesso modo: dalle Tavole parolibere di Marinetti, che mediano dal modello pittorico l’idea di distruzione del tempo, al Coup de dés mallarmeano, che si propone quale poema a più direzioni di lettura, fino all’uso dell’immagine fotografica in certa produzione degli anni settanta, il significato assunto dal concetto di “percezione simultanea” ha conosciuto variazioni notevolissime. Ad ogni buon conto, è opportuno avvisare che la realizzazione del progetto ha per lo più trascurato un nesso cruciale, il solo che nel sistema della scrittura garantisca la linearità del messaggio, vale a dire l’ortogonalità dello spazio. Si consideri, quale esempio, ancóra una volta un testo concretista:

f o r m a
r e f o r m a
d  i  s  f  o  r  m  a
t  r  a  n  s  f  o  r  m  a
d  i  s  f  o  r  m  a
r e f o r m a
f o r m a
   
Come si “vede” bene, la leggibilità di questo brano di José Lino Grünewald (1959) dipende strettamente dalla disposizione seriale dei sintagmi: un medesimo monema può generare una serie di permutazioni semantiche esclusivamente se noi siamo in grado di lèggere la sequenza dall’alto in basso o viceversa. Certo, le possibili direzioni, invece di una, sono due... Allo stesso titolo, nel già citato Black Block di Finlay saranno addirittura quattro. Il messaggio non si costruisce più in uno spazio lineare univoco e irreversibile, ma, ciò non di meno, la simultaneità percettiva è più apparente che reale: occorre comunque procedere da un punto all’altro della pagina.
Questo vale, in una certa misura, anche per i testi visuali del primo Zeroglifico (1966), giacché in essi — benché non vi siano affatto parole intere e nemmeno lettere alfabetiche complete — permane la disposizione ortogonale degli elementi segnici. Solo con le nuove sei tavole dell’edizione americana del 1977, Spatola si è definitivamente lasciato alle spalle l’impasse. Qui il frammento grafemico fluttua liberamente in uno spazio indefinito, o meglio ri-definito a partire dalle esigenze di una fruizione istantanea. Il rapporto tra bianchi e neri è determinato da attenzioni di carattere principalmente ottico, e lo stesso chiasmo tra tentazione di lettura e rinuncia alla decifrazione si costruisce non attraverso il riconoscimento di singoli percorsi orientati, ma piuttosto secondo le movenze ritmiche e quasi coreografiche della pagina globale. L’ortogonalità è negata nei suoi fondamenti: emancipandosi da essa, il testo si libera anche dai retaggi dello schema gnoseologico più coercitivo che la razionalità occidentale abbia escogitato. Dal modello Mondrian siamo trascorsi al modello Malevič. Ovvero, muovendo dal “cubismo” della poesia concreta, Spatola è approdato a una sua speciale versione di “suprematismo” del grafema[viii]. 









[i] Senza nulla voler togliere alla costitutiva differenza tra poesia comunemente inte­sa e poesia visuale, si potrebbe riflettere, ad esempio, su questa affermazione di Paul Valé­ry: «Provatevi a consultare la vostra esperienza: scoprirete che se noi com­pren­dia­mo gli altri e se gli altri com­prendono noi, ciò avviene grazie alla ce­lerità del nostro pas­saggio attraverso le parole. Non bi­so­gna attardarsi su di es­se, pena il constatare come il discor­so più chiaro si trasformi in un enigma, in un mirag­gio più o meno complesso[...]. Nelle adibizioni pratiche o astratte del lin­guag­gio, la forma, vale a dire la fi­sicità, la capa­cità sensibile e l’atto stesso del discor­so, non si conser­vano; la for­ma non soprav­vive alla com­prensione ma si dissolve in chiarezza; ha agito e svolto il suo compito, ossia ha fatto capire; il ciclo della sua esi­stenza è com­piu­to. Invece non appena la for­ma sen­sibile, grazie all’effetto che essa produce, acqui­sta un’importanza tale da imporsi al­l’at­ten­zione e da farsi, in qualche modo, ri­spettare (e non solo no­tare e rispettare, ma desi­derare, e per­ciò riprendere) —allora qualche cosa di nuo­vo sta per prodursi: ci sia­mo inavvertitamente tra­sfor­mati, siamo pronti a vivere, a respi­rare, a pensare in base a uno statuto diverso e secondo norme che non ap­partengono più all’or­dine pratico [...]: siamo entrati nell’universo poetico» (P.VALE­RY, Poesia e pensiero astrat­to, in Varietà, Rizzoli, Milano, 1971).
[ii] Si vedano sopra tutto le Tavole parolibere (1915-19) di Marinetti, nelle quali la struttura grafica — riprendendo esperimenti già tentati con minor audacia nelle Parole in libertà — si in­carica di far coagulare al proprio interno (anche) eve­nienze tipiche del “parlato”. Cfr. L.BAL­LE­RINI, La piramide capovolta, Marsilio, Ve­nezia, 1975.
[iii] Certamente quello della “referenzialità interna” del segno iconico non è affatto un problema risolto. Basterebbe considerare le argomentazioni che contro l’ipotesi ha sol­levato la moderna semiotica americana. Tuttavia appare altrettanto discutibile che il linguaggio iconico possa dirsi semplicemente convenzionale, e bisogna ammettere che per es­so, se non altro, la questione di un eventuale rapporto di “somiglianza” tra signi­fi­cante e si­gnificato si pone.
[iv] Come è noto, il Cratilo di Platone ipotizza e difende l’origine causale, onomatopeica, del lin­guag­gio, suggerendo un impiego assai curioso e suggestivo dell’etimo­lo­gia.
[v] A.SPATOLA, Zeroglifico, Sampietro, Bologna, 1966. Poi, ristampa senza variazioni, Geiger, To­ri­no, 1975. Infine, con l’aggiunta di sei tavole inedite, The Red Hill Press, Los Angeles & Fairfax, 1977.
[vi] Si vedano, a tale proposito, le utilissime distinzioni interpretative proposte da G.NICCO­LAI nella sua introduzione alla seconda edizione di Zeroglifico sopra citata.
[vii] Citato da G.NICCOLAI, idem.
[viii] Cfr. anche, intorno a questa affermazione, il mio Zeroglifico, ipotesi per un supre­matismo gra­fe­ma­tico, in Adriano Spatola, Campanotto Editore, Udine, 1986.