lunedì 7 maggio 2018

SE NON SIA IN FURORE

Se non sia in furore (1987)





1.

Ne ho cercato inutilmente il sapore, delizioso, tra vólti difformi e tutti uguali di una vana folla estiva giovanile. Troppo nitida o flut­tuante l’immagine, il ricordo, troppo “altra” la dimensione da cui lo traggo (per avvinghiarmici occultandolo in me stesso), troppo lon­tana, forse – l’immagine del sogno, geometrica e sfumata – per riprodurla quale pietra di paragone o scandalo: nello scandaglio di una presunta “realtà”, impallidita e vuota, acqua e solo acqua, de­ludente. Le figure scialbe, inconsistenti o eccessivamente dense e corporee (prive d’aura) delle candidate al fallimento, le mille figure in cui discende, acconsentendo, la promessa implicita e fraudolenta del piacere, le figure (in verità) della sua negazione, della sua piú “vera” irrealtà, sfavillavano nell’ordine a cui le costringe l’atten­zione, lo sguardo selettivo e di volta in volta concentrato: còlte e isolate tra gruppi promiscui tra gli alberi, e messe in riga come per la prova: senza resultato soddisfacente che non fosse, per contrasto, l’impreziosimento e dunque il miglior possesso (o consapevolezza) di quanto mi aveva spinto a tale assurda, e del resto involontaria, verifica.
I suoi capelli neri, lunghi e sottili, raccolti in boccoli un po’ bagna­ti, in ciocche fruscianti sul mio viso, mi lambivano irritandomi le palpebre, talora mi impedivano lo sguardo: e scendevano da un vólto sprofondato nella loro cornice, addolcendone, ai lati, la linea di contorno: la bocca dischiusa e vagamente ansante, le labbra (a sfiorare le mie labbra) umide, molli, carnose, scure. Lei raccolta su di me, piantata sulle braccia distese, sui pugni premuti di fianco alle mie spalle, bagnata in viso, rilassata e attenta, appena velata da una camiciola trasparente e ariosa, incapace d’eludere il tripudio della carne. Un fremito leggero delle anche, talora congelato in attonite movenze, in progresso (e ausilio a sostener lo sforzo di una lunga positura artificiosa), produce a piú riprese il contatto delicato, esterno, il tenue soffregamento – là in basso – e lo sfiorarsi appiccicoso: tra scatti brevi e intensi, solo virtualmente dediti a ricercare il movimento giusto e la finta che lo elude, il definitivo incontro: come per una sfida a prolungar l’attesa, assurda!, e ad accrescere con essa il desiderio che zampilla, sempre rigenerato per l’assiduo richiamo di un parziale e ripetuto bacio, a fior di labbra: parallelo all’altro (piú vicino, piú lontano, identico) che è metafora del primo. Le mie mani: un luogo inquieto, scendendo alterne lungo i fianchi, che trascinavano il tessuto trasparente nella loro risalita: scoperta e opaca nella penombra la pelle di gambe lisce e robuste, di cosce cospicue, saldamente connesse alla curva del dorso come un arco, di natiche assodate dall’incessante attrito controllato, pelle che si offriva a palme aperte: alle mie, per l’avventura di falangi sensitive.
Nessuna frenesia, nel ricordo, non ebbrezza alla deriva – ma la calma e la ricerca, l’attenzione estrema, fólle, per il singolo passag­gio, l’estasi e l’oblio, il senso (solo) desto a cogliere i piú remoti in­dizi; un fruscio, forse, di felicità. Lei sopra il mio corpo, a gambe aperte, tese le braccia, lo sguardo assente, perduto altrove: indo­mita esploratrice, insaziata mendicante di un contatto piú profondo e sempre eluso. Perfetta, dico, nella specularità perfetta di vólto e gesto: identico il richiamo, eguale la risposta; eguale, e parallela, la leggerezza del tocco, la stasi superiore del moto. E quella bocca se­michiusa a cercare la mia bocca, che scende e vi trasale, che lambi­sce e poi risale, che preme con la lingua labbra in fiamme; e vi lascia un succo caldo, senza sosta: intensità di gioia mai sperimentata, di un delirio consapevole, colmo d’echi e d’assonanze. E il corpo pie­no, scuro tra i capelli neri, modellato, ombroso, che grava e mi ac­carezza: come dimenticare... e come ricordare tutto ciò?
Immaginazione, presenza certa, piú reale del reale, totalità, asso­luto. Un solo palpito in tutto il mio essere, in un solo luogo... ma es­senziale, centralissimo: là dove l’altra sua bocca, dischiusa poco a poco, illanguidita e ormai protesa, si abbassava a sfiorare e, per brevissimo spazio, a risucchiare a sé: là lo spasmo radicale... là era tensione e ricaduta, inseguimento e resa, anelito allo stato puro, li­quido. L’umidità dei corpi suggellava (bagnando il ventre, le anche, i capelli) la sintonia della ricerca, l’unità della speranza: nella quale precipitavamo da altezze indescrivibili, e sprofondavamo delizian­doci in un’alcova d’oblio costruita per noi stessi. Ecco, la realtà, il dopo, impallidisce e svuota, si fa acqua e solo acqua; e sfuoca: delu­dente.



2.

...ciao le hai detto ciao lasciatala per via lasciatala cosí in un giorno a lungo preparato nella città soave ancóra per caparbio autunno e che sprigiona sole a lungo incamerato e che sprigiona prima tue memorie sole assorbite nelle pietre imprigionate per antica già esecrata inutilmente esacerbata consuetudine in filamenti di coscienza innestata nelle pietre in tali correlati oggetti di tua densa e lacerante consuetudine con altra donna altre donne altri fatti o ferite innominate innominabili memorie che ora tenti te infelice di negare di inghiottire come inghiotti la saliva e t’allontani e dici ti ritrovi pensando invece come sbavi i filamenti di coscienza che introietti come insulti e te ne vai lasciandola cosí a marcire la coscienza a marcire nel suo limbo di rimpianti lei che in un giorno a lungo preparato t’ha sentito dire ciao e s’è piegata su se stessa compresa nel suo grido silenzioso invece girato nel di dentro in sé compreso e riluttante a farsi voce invece a farsi udire a farsi corpo e grido di coscienza a vederti allontanare esacerbato dal rimorso ma deciso ma deriso da te stesso per aver puntato tanto come sempre come sempre già tutto risapendo per antica consuetudine il ritorno il fallimento le quinte sempre uguali quelle pietre...



3.

...ora tarda e suona e apri e accogli sbalordito lei che viene ino­pinata senza avviso e ride e piange e spiega ma tacendo ma men­tendo in inconsulta apparizione e prima ancóra s’arrovescia sul divano appena giunta e vuole esige condizioni patti chiari anzi implora e poi s’affida alla tua galanteria nell’attesa dell’ameno del momento di sicuro suo venire meno e per di piú confessa è stata in punto di aggredire un’altra volta il tuo peccato di galanteria in eccessivo zelo in inconsulto inopinato orgoglio tuo e tu e tu prendi via suvvia e prendi un’altra volta e cos’aspetti piú che sua sbalor­ditiva giunta in ora tarda senza avviso e allora ascolti e poni tutto sull’attesa del propizio del momento in cui l’azione è data per vin­cente e l’arrovesci sul divano e fotti e te ne fotti d’ora tarda della tua galanteria e ancóra attendi per produrre prima volta deliziosa un’altra volta e invece è proprio ora ch’ella vuole e nega e ti ripren­de per eccesso di tuo zelo nel carpire l’occasione da sfruttare da portare nel profondo nell’oscuro della stanza ed ecco spoglia strap­pa scuce sfila in alto le cerniere e t’aggredisce inopinata non attendi non l’aspetti t’aggredisce ovvía suvvia s’avvinghia nel profondo nell’oscuro della stanza e stratta e strappa e toglie non ti lascia no non ti lascia non il tempo di fiatare non concede la tua mano sulla coscia là in profondo la tua bocca la sua bocca e stringe e sfila i tuoi vestiti la sua mano non concede il tempo e t’arrovescia e corre là piú in basso sulle cosce e tu l’attendi ma non viene e tu l’attendi ecco viene e tu l’attendi e sei perduto...



4.

...la doccia dice infine è la tua doccia e ride mentre attendi la discesa si è calata si è tirata le coperte e ride e tu la senti mentre muovi che si muove là di sotto là da solo ecco tocca la sua bocca e tu la senti sí la senti un poco molle se si muove se ti grava le sue mani sulle cosce se ti stringe la sua bocca a tocchi brevi vellutati se ti prende se s’innalza a tratti brevi è una marea a pronti scatti nella bocca un po’ racchiusa e poi s’attacca non ti muovi e tutto lí s’innal­za e si concentra e tutto v’affluisce e si restringe ed è l’attesa ed è lo spasmo sovrumano nella bocca se in secca la tua bocca per l’attesa che concentra e non esplode e tutto sale solo se trapassa se affluisce se in secca è una marea a pronti scatti se esplode il sole la sua lama e ti trapassa nell’attesa non è attesa la sua lama t’arroventa là nel punto là di sotto a pronti schizzi prolungati a ritmi tratti e lo introduce nella bocca l’attira tra le labbra e non la vedi ma è caparbia nell’attesa e scende ancóra poi risale si concentra ed è tensione s’accanisce ed è dolore tu non puoi non ne puoi e chiedi il lampo la tempesta e il sole t’arroventa le parole a mozziconi che bisbigli che sussurri ed ecco giri e tutto ruota su se stesso la tua mano è tra le cosce ed ecco gira non ti molla e cogli il succo un tocco breve ed è piú intenso ed è piú flusso il tuo il suo il tuo s’innalza e tutto cede e tu sai che t’ha seguíto e senti il flusso il tuo il suo il tuo ed ella ride dice si rallegra sei sgomento del tuo sputo sulla bocca sulla fronte tra i capelli ed ella ride dice si rallegra sei felice...



5.

Tu, accidiosa, ironica, preveggente, a mostrar tuo limite diligentemente accorta, carezzevole nel tono della voce, ridanciana poiché soddisfatta da una rivincita non facile a ottenere, trionfante vendicatrice di te stessa, pronta a infliggere nuove punizioni, consapevole e orgogliosa per tua consolazione di quanto poco credito (o poco onore) riscuotesse la perfezione tua d’allieva ligia a’ professori, e pertanto sforzandoti di non curar di loro, di lui, di chi incarnasse allora l’insolente strepitoso modello d’enfant terrible e generale mascalzone a puntare piedi su sregolatezza, sull’improvvisazione, sulla mancanza di ritegno, di misura, nel disprezzo di tutto ciò ch’è studio conforme a indicazioni superiori (ossia scolastiche!), ma in verità stregata, punta a morte, quasi genuflessa e bisognosa di riscatto, ammiratrice silenziosa per tuo danno e giocoforza di colui che t’umiliava, esclamasti: – Te l’avevo detto!..., con lo sguardo e il subitaneo gonfiarsi di tue penne metaforiche, in tutto il corpo, nei vestiti ancora onesti e provinciali (da bambina di famiglia, da vessillo reazionario di universitaria ancora seria negli anni di rivolta), senza muover labbro eppur raggiante, paffute le tue gote appena colorate, sorridente e bonaria, quasi (per ripicca e a incrementar lo scorno) comprensiva, già materna! Mater erroris et remissionis, avvolgente mare di bontà fittizia grande porto del riposo e della cura, consolatrice degli affanni e premio già promesso per gli audaci: – Ebbene, accoglimi prendimi, trattienimi, aiutami... si pensava al sol vederti, compresi nella luce del tuo campo, e tali auspici, immaginati a te inimmaginabili, li avevi certo messi in conto a tua scaltrezza tesa anzi a cogliere il momento, dedita alla posta (cacciatrice in guardia nel meandri d’ateneo): persuasa di poterli, a giusto tempo, stimolare, e procurare... quando rifulge la tua stella, la tua ora, il giorno del riscatto, dopo spregi e sufficienze, quando tu, diabolo che i peccatori abbrucia, regina che schiacci sotto il piede l’altrui supponenza, infine, ecco vinci, e tendi – solo allora – una mano salvatrice, a dita leggermente ripiegate: – Te l'avevo detto!..., e intendi dire che il potere la guadagna sull’orgoglio, che non v’ha scampo per gli ingenui, ne scampolo di gloria, e tanto meno pei ribelli, che lui, l’incarnazione provvisoria del potere, avrebbe piegato la schiena a chi, per il solo non piegarsi, ti umiliava: fanciulla tracotante, albagiosa, viziosissima, adusa a primeggiare, a sgargiare nel colore, sorridente, compresa in rappresentazione del tuo ruolo, di perpetua dea felice, di donna priva d’incertezze: assuefatta a mascherarti, quindi, non solo con belletti, ma ad ascondere e mistificare per conquidere, per vincere... e tuttavia già parata in prefigurazione (o in losco piano) a cangiar la veste, delibando in desiderio il momento metamorfico, l’abbandono successivo, il vasto voto della tua disposta epifania, allorché – smessa l’arroganza, l’altezzosa e finto-umile aura di bontà, nonché spuma tua di mater derelitti, e dipraecipuum premium victis – ti saresti a tuo turno (di tua sponte) consegnata, lagrimosa e sfatta, a confessare un’infelicità completa...: là dove, per contrasto necessario, e ancor prima d’abominevoli palagi di nipponica orrorifica allucinazione, fioriva, irrorato dal tuo pianto (oh, sì!) il primo bacio: l’umido contatto, tra morbidezze velo-palatali, di niente e niente, carne e carne, in concorde e accetta tregua, per la disposizione che trovasti, una volta nella vita?, in te stessa e in chi ti fronteggiava a garantire un grado zero, un’iniziale provvida asseverazione di verginità voluta, mentita, caparbiamente istrutta – e in ciò tanto più reale – nello svuotamento di corpi esausti dall’infinita congerie esperienziale della loro formazione...



6.

La fiamma rossastra che esplode nella miriade di frammenti colorati o in ignei coriandoli, come scolpiti in una loro eternità d’istante – come per il lampo che è luce e scintilla infinita, in un lampo: totalità parziale e precarietà assoluta – e il silenzioso suo sbocciare nell’attesa di un boato in ritardo, fragore superfluo e perciò, dico, fittizio, che potrebbe altrettanto non esserci... il silen­zioso, dunque, suo sbocciare dal nucleo profondo del fuoco in una corolla di chicchi di luce che s’apre come s’apre un fiore di carne se la stagione e l’umore ne invocano il dono – ed è fiamma anche quella, ed è fuoco che brucia, anche quello, e che illumina –: ricor­rente immagine, a me sempre cara, che trasogno nei miei stati di grazia: al momento d’esser rapito nel sonno o al risveglio, durante quell’accensione suprema dello spirito che segna il passaggio tra due mondi diversi, allorché le presenze dell’uno e dell’altro fondono insieme e la coscienza si fa piú appuntita per non essere del tutto presente a se stessa. Le immagini si impongono allora in tutta la loro purezza di eventi: non come oggetti creati o cercati o voluti, ma come fatti subíti, come nude rivelazioni, avvisi del vero e acca­dimenti tanto adeguati (necessari) quanto imprevisti.
Piú di una volta mi sono scoperto a riceverne i frutti in profluvio, l’abbondante messe dei significati, e a poterne decifrare il mistero con facilità, con vivace sentimento di gioia: come se là – nella chiu­sa visione di un attimo – fosse racchiuso tutto il senso di una vita, la mia, in una particolare e davvero brevissima sua fase, ma non per questo meno importante, meno essenziale agli occhi voraci del mio desiderio: in quanto ad essi e solo ad essi contemporanea. Ho visto un imbuto dalle pareti ugualmente rigonfie a metà del percorso, geometricamente formate come da una serie infinita di iperboli identiche, tutte innestate a un’unica ascissa centrale e sboccianti sulle ordinate radiali di un ipotetico cerchio. Mi chiedo se quella figura, da me vissuta come il tetto di un edificio protettivo e minac­cioso ad un tempo, avrà un nome e una formula, se sarà contem­plata nei libri esoterici di un algebra superiore... Si ipotizzi l’alku­waritz della rotazione a trecentosessanta gradi di un sistema carte­siano di cui si è mantenuto immobile l’asse verticale; e si ritenga che a livello bidimensionale la funzione iscritta nel sistema (a prescin­dere dalla rotazione dunque) risponda a una specie di detto sibilli­no: x = n/y. Quale sarà la funzione “totale”, capace di esprimere la trasposizione del risultato nello spazio? E come ha mai potuto la figura tridimensionale che la visualizza, questo monstrum, divenire oggetto e scena del mio sogno?
L’imbuto incombe di traverso, affluendo verso l’alto del suo fuo­co, come un gorgo rovesciato, come un maelstroem proiettato ver­so il cielo (se di cielo si può dire... nella notte e nella cappa immensa che esso crea), come un iperbolico fantasma di fluidità convergenti, che tutto prende e reca al proprio moto, che tutto invoglia in una legge d’incessante dinamismo: in una sparizione lenta e progressiva di quanto ci circonda, in un assorbimento (assurdo!) dentro il nulla senza uscite, senza sbocchi... come per una strepitosa eruzione alla rovescia, come per il ripristino dei vasi dopo la rottura, come per l’ineffabile implosione della materia in ciò che possiamo allucinare e dire: il grembo cosmico dal quale un giorno è scaturita. E dunque l’infinito grado zero creatore, il buco nero universale, il vuoto incredibilmente puntiforme che attende il nostro io oltre l’io, oltre sé, oltre me e la mia capacità di concepirmi, oltre il pensiero della mia perdita e al di là di ogni perdita medesima: nell’assoluto che non ammette opposizioni. Esso, con ogni probabilità, è metafora di quell’incontro con l’essere divino che da sempre ci aspetta al proprio varco, al varco nostro che è passaggio ed è riafflusso in ciò che è stato: estasi del ritorno e mistica del luogo originario, della donna in quanto vaso, in quanto mare, in quanto sesso. Golfo d’ombra verso cui siamo destinati e dentro cui, radiosi, ci lasciamo riassorbire: lasciandoci morire di una piccola diletta morte e di un grande spaventoso oblío. Ed esso è perciò sineddoche del coito, dell’esito in cui la mia visione sfocia perdendosi in un’altra: il fuoco d’artificio superiore, la fiamma aperta e frantumata nel tripudio del colore, il fiore acceso, bianco, variopinto, il flutto sprigionato e debordante dal suo luogo, il punctum conjuctionis del corpo con il corpo, e il sommovimento estremo che, in un colpo, sviscera la terra melagrana spaccandola di netto: tra l’acre odore del suo seno, in­candescente, e l’intenso brulicare delle api tutt’intorno.


                                                                   (1986-1987)