Per
chi (come me) è legato da un profondo affetto sedimentato nella memoria, la piú
intima e remota, quella dell’infanzia, per chi ne ricorda ancora il respiro
ansimante, quasi un sibilo a fior di labbra, ma sempre pronto a mimetizzarsi in
uno zufolo canoro, per chi lo rivede oggi nelle nebbie del ricordo come in un
alone di magia e d’altri mondi, cosí lontani, con il mozzicone tenuto tra i
denti e forse già spento (mi par di poter dire: nazionali semplici, senza
filtro), con la tavolozza poggiata su un ripiano e martoriata di paste
cromatiche, macchia sopra macchia, con il pennello vibrante tra le dita e con
quello sguardo benigno (che mai cancelleranno incuria o tempo) per il nipotino
di otto anni inopinatamente piombato nella stanza adibita a studio, per chi lo
ha vissuto e ancora lo vive e lo “sente” in quel modo, sarà ben difficile
tracciare le linee di un plausibile discorso su Emilio Sproccati, pittore
contadino e uomo raffinato, appassionato d’arte fino allo spasimo, e malato di
dolcezza, di stramberia, di alterità. Era nato figlio di mezzadri, e destinato
alla vita di tutti i suoi simili, ma fin da adolescente esorbitò – non è dato
comprendere perché – da quel destino e da quegli orizzonti fatti di schiene flesse
e di scarpe infangate, di aie e di fienili, di puzzo di sterco di vacca e di meravigliosi
profumi di frutta. Emilio, pecora nera nel gregge di famiglia, imprevedibilmente
prese a guardar pittori, a leggere libri e a tentare la via del decoratore, fino
a fuggire in quella che per lui era una metropoli ricca d’opportunità, Bologna,
per poi tornare al paese forzato dalla fame e dalla disperazione. Ma, ecco, egli
non si diede per vinto. Si fingeva falegname (per la donna di cui si era
innamorato e per i figli da lei partoriti) ma faceva il pittore, e per tutti,
in fondo, nel paese, era proprio “il pittore”. E da buon pittore, che deve
capire la pittura, si recava alle Biennali veneziane su una lambretta
dell’immediato dopoguerra, dove (corre voce) vide Pollock e lo trovò, come è
ovvio, incomprensibile. Ma è sicuro che a un certo punto si imbatté in Morandi
e lo trovò intrigante, e che prima ancora aveva veduto De Pisis, apprezzandolo.
Dipingeva tutti i giorni, specie nei festivi, e forse attraverso le immagini dei
suoi quadri cercava il senso riposto dei luoghi in cui era nato, dei pioppi e
dei salici, delle case coloniche, delle strade sterrate serpeggianti ai bordi
dei canali, verso il Palazzone o la Vallazza. E allestiva – proprio come
Morandi e De Pisis – vecchie brocche un poco rovinate, lattine di olio di semi
Topazio e aringhe sulla carta gialla del pescivendolo, provvisoriamente sottratte
alla padella per essere elette a idoli del quotidiano, a modelli dignitosi di
natura morta, che per lui era piú viva di tutti i viventi che lo circondavano
(senza capirlo). Un uomo strano e straordinario, un artista autentico – se
questa parola ha ancora un senso – in un mondo che di autentico cominciava a
non aver piú nulla. Un uomo assurdo, venuto da chissà dove e capitato qui tra
noi cosí, come una meteora, o piú semplicemente per uno di quei misteri dell’umano
che non hanno spiegazione alcuna.
domenica 28 maggio 2017
PER EMILIO VILLA – CONVEGNO DI FIRENZE 2004
Si tratta
dell’occasione in cui sentii parlare per la prima volta del poeta: era il 1978
o il 1979. E fu quando, durante una certa zotica cena di gruppo, di quelle
classiche della mondanità artistico-espositiva-bianalesca, venne chiesto al
nostro anfitrione – che (guarda caso) era proprio Mario Diacono, allora
titolare di uno spazio bolognese deputato alla pittura d’avanguardia — venne
chiesto, dicevo, quale fosse, al di lui avviso, il piú grande scrittore italiano
del secolo. E Diacono, di cui ero amico e conoscevo la biografia, invece di
rispondere (come a me pareva logico) con il nome di Ungaretti, sibilò d’un
fiato un suono che nessuno, in quel consesso un poco idiota, conosceva,
generando come d’incanto un brivido
di smarrimento collettivo. Ricordo che io, ventenne ingenuo, non seppi pensare
ad altro che alla curiosa (parziale) omonimia con uno degli allora piú
glorificati figuri della canzonetta italiana popolare, a me odiosissimo
(naturalmente): il Villa sí, ma Claudio e non Emilio, come è ovvio.
Il giorno dopo, o
comunque di lí a poco, pretesi esaurienti illustrazioni dal Diacono medesimo,
ed ebbi cosí notizie di prima mano sull’uomo e sull’artista. Mi fu segnalata
l’esistenza dell’edizione Feltrinelli dell’Odissea,
con lo stupefacente delirio filologico che introduce la sorprendente traduzione
villana. Mi regalò anche la plaquette Verboracula,
dall’originale e oggi introvabile collezione di «Tau/ma», rivista ch’era
diretta dallo stesso Diacono, la quale plaquette suscitò in me un entusiasmo
forse disdicevole, e di cui reca fin troppo palese la nefasta traccia un testo
che scrissi allora e che pubblicai qualche anno dopo, nella mia prima
raccolticcia di poesiucole, quella spatolata da Adriano nelle sue edizioni di
«Tam Tam» (1983).
In quegli anni mi
dedicai a reperire del Gran Villa tutto ciò che potei, divenendo in breve un
suo totale apologeta, e cercai anche di parlarne piú che mi riusciva con tutti
coloro che minimamente reputavo degni di udirne il Verbo senza stramazzare al
suolo, facendo in qualche occasione però impazzire le migliori tra le mie
studentesse dell’Accademia di Belle Arti presso cui insegnavo (a Venezia), con
la lettura — ad esempio — degli hypno-eroto-anatomico-machico testi dedicati a
Burri, della cui combustione esistenzial-pittorica Villa fu il primo grande
scopritore in assoluto. —> CIT. DAGLI ATTRIBUTI, su BURRI. Attributi dell’arte odierna... Sí, gli
attributi e i controfiocchi invero, ma di chi gli ha scritti!
Poi lo conobbi,
anche, il nostro, e fu nel 1985: fu al Teatro Valli di Reggio Emilia, durante
l’inaugurazione (ancóra) di una mostra. Il mostro me lo presentò Claudio
Parmiggiani, un altro amico dell’epoca, vedendo che guardavo con stupore un
uomo pasciuto e dall’aria decisamente gaudente che già qualcun altro aveva
salutato come il poeta, e che mi riusciva cosí diverso dall’immagine fisica che
arbitrariamente me ne ero costruita a partire dai suoi testi, barocchi quanto
basta, ma altresí sinuosi, appuntiti, acutissimi, al limite ascetici. Villa fu
con me (come con tutti, credo) drasticamente delizioso: mi magnificò, mentre
insieme le degustavamo, le virtú apotropaiche delle “creste di gallo”, una
pietanza da buffet emiliano che, dopo quella volta a Reggio, non ho piú assaggiato
né visto; e mi espose, in mezz’ora, alcune colossali teorie relative
all’aramaico e al suo rapporto con il sanscrito, alla mitologia greca, al
significato di certe metafore oscene nel Vangelo di San Giovanni, agli equivoci
della filologia applicata ai testi biblici, alle misteriose relazioni tra la
mistica persiana e la lingua dei latini, e ad alcuni altri problemucci di tal
fatta! Ma, si noti bene, allorché la sapienza brillava oracolare e fascinosa in
ogni villana postilla, il tono e il lessico erano tuttavia di una colloquialità
amiconesca: senza pedanteria alcuna, niente di didattico o di compiaciuto, e
anzi con uno tocco soave nell’esposizione che gli invidiai immediatamente
(insieme alla sua caotica cultura).
Cosí parlò Emilio
Villa: sovente biascicando le sillabe intorno a qualche ghiottoneria nel
frattempo masticata, interrotto solo dall’orlo del bicchiere sulle labbra, e
sempre del resto intercalando osservazioni sulla qualità delle vivande di cui
anch’io, nel frattempo, mi ingozzavo come nella gioia di un volontario
naufragio. Villa parlò. E poi disse ancóra qualcosa intorno a Mallarmé, e
quello, ve l’assicuro, fu come il culmine del possibile.
E oggi, vent’anni
dopo – mentre lui, scontato un indegno purgatorio di vita vegetativa tra
brodetti scialbi e (presumo) ignominiosi clisteri, alla fine, grazie a Dio, se
ne è andato in un turbine di ninfe dalle vulve fanciullesche – ecco, piano
piano, bisbiglio dopo bisbiglio, voce dopo voce, articolo dopo articolo, libro
dopo libro, convegno dopo convegno (come giustamente qui si testimonia), la
levatura immensa del poeta nostro del secondo Novecento comincia a emergere
anche nella coscienza sporca dei chierici di regime e degli intellettuali da
guinzaglio. Ed è già qualcosa... E non è che l’inizio... Che aggiungere?
Prosit, Emilio!
LINGUISTICA E POESIA CONCRETA
Qualche nota intorno allo "Zeroglifico" di Adriano Spatola
[1989]
La linguistica strutturale individua per il segno verbale cinque attributi
di fondo, in parte condivisi con altri sistemi segnici, in parte esclusivi
della parola e dei suoi specifici procedimenti. D’altro canto, la teoria della verbovisualità — cosí come viene a
proporsi nella seconda metà del nostro secolo, quindi dalla nascita del
“concretismo” in poi — attua un violento attacco ai metodi della scrittura
classica, con il chiaro scopo di portare alle estreme conseguenze ciò che io
credo si possa interpretare quale vocazione
latente della poesia [i]. Pur mantenendo ben ferma la centralità
dell’elemento-parola, la poesia concreta si definisce, infatti, nei termini di
una crisi del sistema, poiché oscilla
tra l’ideologia dell’interferenza con altri tipi di comunicazione (primo fra
tutti il linguaggio iconico) e la tensione verso il dissolvimento globale del
segno nella nube di un impiego indeterminato, estraneo alle crucialità del
“codice”.
Più in particolare, e con maggiore esattezza, occorre dire che laddove il
codice è forte — ossia vincolante — il concretismo cospira a misconoscerne
l’applicabilità, cosí da negarlo in quanto evento normativo; mentre, per
contro, rispetto ai nessi nei quali il codice agisce poco o nulla (o comunque
risulta meno determinante) esso sembra intenzionato a recuperarne la presenza
piena. Un paradosso solo apparente: giacché il bersaglio scelto, ad ogni modo,
è il sistema della scrittura che la tradizione ci consegna.
Ciò che mi preme qui di dimostrare — utilizzando come punti di riferimento
la “base” originaria del concretismo da un lato, la posizione “avanzata” di
Adriano Spatola dall’altro — è che le cinque proprietà segnalate dai linguisti contribuiscono a formare
altrettanti sustrati problematici di grande rilievo, assolutamente
imprescindibili se si vuol comprendere il ruolo storico della poesia visuale.
a. Impiego di elementi fonici non
codificabili. E’ un tratto distintivo della comunicazione verbale vera e
propria (ossia del segno fonetico) che trova poca corrispondenza nell’ipercodice della scrittura.
Quest’ultimo, essendo nient’altro che ulteriore codificazione di un sistema
preesistente, tralascia per propria natura i cosí detti “fatti
sovrasegmentali”: il tono della voce, le variazioni volumetriche, le pausazioni
significative, gli accenti locali, i lapsus, le imperfezioni sintattiche e di
pronuncia, ecc.
E’ qui che la poesia concreta, sulla scorta di certe indicazioni del
futurismo e del dadaismo[ii], si pone in competizione con il livello primario della fonesi e tenta di recuperare alla
scrittura possibilità espressive che parrebbero esserle precluse. Che i
caratteri prosodici della poesia classica — verso, ritmo, rima, assonanza,
suddivisioni strofiche — possano ammettere risvolti di rimando alla
sovrasegmentalità del “parlato” (e forse addirittura origini ad essa collegate)
è dato acquisito. Ma il concretismo agisce, da tale punto di vista, verso una
risemantizzazione “normativa” della struttura tipografica. La rottura
dell’unità minima del verso non deve trarre in inganno. E’ proprio il rigetto
di regole standardizzate nella tradizione (e ormai lontane dal loro iniziale —
plausibile — “motivo”) che permette ai vari Gomringer, De Campos, Pignatari, un
controllo maggiore della semiosi scritturale e, in definitiva, la possibilità
di recuperare ad essa almeno una parte di ciò che il suono “può dire”.
Al di là di qualsivoglia intenzione referenziale — comunque non saliente
nelle pratiche del concretismo — sta di fatto l’incremento della capacità
significante della parola scritta. La scelta di utilizzare esclusivamente la
tipografia, per lo più con segni esteticamente neutri, tipica della prima
stagione concreta, dal 1952 al 1958 circa, si spiega proprio in questa maniera:
la grafia manuale, in quanto portatrice di istanze individuali e psicologiche,
è “sovrasegmentale” rispetto alla scrittura: ma tale devianza rimane tutta
inclusa nei limiti storici dell’ipercodice, e costituisce al più un elemento di
disturbo nei confronti di una ristrutturazione scientifica del medesimo.
b. Arbitrarietà e convenzionalità
del segno. A prescindere dal “caso limite” dell’onomatopea — del quale, non
“a caso” i futuristi fecero un casus
belli — il linguaggio verbale, e con esso la scrittura fonetica, va del
tutto esente dal sospetto di referenzialità
interna (ossia di intima motivazione)
che in qualche modo caratterizza, invece, il segno iconico[iii]. La poesia dell’avanguardia storica, nella sua più o
meno spiccata tendenza a conciliare codice verbale e codice plastico,
ovviamente prende di mira l’idea della assoluta convenzionalità del linguaggio.
Da Velimir Chlebnikov, pronto a far discendere la forma stessa dell’alfabeto da
princípi analogici che regolerebbero l’universo, a Ezra Pound, che si serví di
supporti ideogrammatici per “ancorare” il senso a qualcosa di meno labile che
un puro arbitrio, la questione del reperimento di un “rapporto causale” tra
espressione e contenuto è nucleo elementare di tutta la ricerca poetica del ventesimo
secolo.
Bisogna però avvertire che proprio i fondatori del concretismo si
disinteressano alquanto del problema. Ad esempio, il celebre “pezzo” di
Gomringer intitolato al Silenzio
(1953) impiega vie non mimetiche, e nemmeno direttamente analogiche, per
attuare una trasmissione del significato attraverso la messa a vista del corpo
del significante:
Silenzio
Silenzio Silenzio
Silenzio Silenzio
Silenzio
Silenzio Silenzio
Silenzio Silenzio
Silenzio
Silenzio Silenzio
Silenzio
Qui lo scarto visuale, e cioè il “vuoto” che sta al centro della
composizione, produce l’evocazione “altra”, ma forse la sola autentica, del
concetto che il segno verbale cerca di veicolare (e tuttavia trasgredisce,
parlando). Tale scarto non imita alcunché: risponde a convenzione almeno quanto
la scrittura. Occorrerà attendere Ian Hamilton Finlay, con il suo Black Block, perché la poesia concreta
inizi ad occuparsi — attraverso espedienti tautologici — di “necessità” e di
“causalità” del rapporto segnico.
Ad ogni modo, l’accentuazione degli aspetti concreti del materiale non è
affatto implicitamente portatrice di una ideologia “creatilea” del medesimo[iv]. Nell’età contemporanea il linguaggio iconico,
attraverso l’astrattismo, si è a sua volta emancipato da ogni obbligo
imitativo: cosí una corretta interpretazione verbovisuale della scrittura può
andare del tutto scevra da implicazioni mimetiche ed essere invece
perfettamente accordata con (nuove e diverse) convenzioni codificanti.
c. Strutturalità del significante.
Ovvero presenza della doppia
articolazione, il rapporto tra un “sottosistema” fonematico e un
“sovrasistema” monematico. Su questo punto interviene la grande novità di
Adriano Spatola. Non che prima di lui, e accanto a lui, non si abbiano (avuti)
prodotti letterari capaci di mettere in crisi la strutturazione del
significante in “unità minime di suono dotate di senso” (monemi) a sua volta formate di “unità minime di suono non dotate di
senso” (fonemi). Ma con Spatola la
decostruzione è affrontata in maniera quanto mai precisa: attraverso un
incessante lavoro di erosione, pragmaticamente realizzato mediante le forbici,
vengono aboliti gli eventi che nella scrittura corrispondono alle unità di
suono, i grafemi (più banalmente:
segni alfabetici). E il superamento della “barriera” del grafema diviene
irrinunciabile proprio rispetto a una possibile critica radicale del
concretismo, delle sue finalità e dei mezzi impiegati per conseguirle. La prima
edizione di Zeroglifico [v] già evidenziava tale superamento, ossia si basava sulla
rivoluzionaria scomposizione della lettera alfabetica in entità minori,
frammenti appena riconoscibili di un materiale che ripudia la sua stessa
leggibilità: la quale può essere restaurata solo per via intuitiva, talora
grazie alla forza propria di un segno mantenuto al limite (i cui tratti, vale a dire, mantengono qualcosa del
grafema), altrove per associazione di idee o per induzione critica[vi]. E ciò nonostante l’appartenenza delle tavole di Spatola
all’ambito poesia concreta è fuori discussione, dato che la materia da lui
impiegata è sempre assolutamente verbale, e ancor più è sempre assolutamente
tipografica.
Ma una simile materia, fatto altrettanto indiscutibile, abdica non solo
alle proprie facoltà semantiche tradizionali, ma perfino alla propria
decifrabilità immediata. Le pre-forme di cui sono composti i “testi” di Spatola
stanno alle lettere conchiuse come tracce indeterminate del campo fonetico
stanno ai segnali sonori strutturati in fonemi. Sempre che sia possibile, appunto,
trasferire istanze relative al piano orale su quello dei fenomeni grafici: ma
va da sé che solo tale trasposizione può asseverare lo statuto
linguistico-verbale degli “zeroglifici”, i quali, perciò, si fanno portatori di
una metaforicità non solo (genericamente) scritturale, ma più precisamente
fonetica. La dialettica che instaurano, tra superamento della doppia
articolazione del segno e recupero metaforico del suono, individua una nuova
poetica concretista, capace tra l’altro di tradurre in ritmo musicale
l’andamento visivo della “frase” dealfabetizzata. Secondo lo stesso Spatola si
tratta di creare un
«mosaico di frammenti
decontestualizzati [che] si costruiscono nello spazio bidimensionale come
fraseggio, nel senso che si dà in musica a questo termine»[vii].
d. Carattere “discreto” del segno.
Il principio della strutturalità del significante e della sua costruzione a
partire da unità combinate tra di loro comporta l’esclusione di qualsiasi
pertinenza dei fatti dimensionali e quantitativi. In altre parole, la macchina
del linguaggio verbale ignora totalmente ragioni di proporzione tra grandezze
del significante e grandezze del significato. Essa funziona come un insieme di
entità combinatorie sempre uguali a se stesse se prese singolarmente: ovvero,
con terminologia tratta dall’informatica, come sistema “digitale” e non
“analogico”.
Il lavoro di Spatola, anche in questo caso, procede contro il principio
normale della lingua, e si offre (semmai) proprio nei modi di un sistema
analogico. L’antilinguaggio dello Zeroglifico,
evocando a livello programmatico l’idea di una comunicazione realizzata per
simboli visuali (geroglifico, sacra incisione) e insieme il grado “zero” della
scrittura, instaura su un andamento pseudo-musicale il proprio continuum espressivo. Ogni segno è solo
forzatamente un’unità (cosí come in musica solo forzatamente si può parlare di
singola nota) e la tavola dà luogo a un tutto unitario: all’interno del quale
appaiono segni talmente con/fusi tra loro da risultare completamente
inscindibili. Il poeta ha lavorato di “composizione”, dunque ha giustapposto
entità frammentarie ottenendone una specie di somma. Ma nel suo lavoro ogni
parte vive della relazione con le altre, e il carattere strutturale del “testo”
è recuperato su un piano diverso da quello che compete alla parola. E’
piuttosto la medesima strutturalità della grande pittura astratta, da Malevič a
Matisse. La colla e le forbici permettono a Spatola di intervenire al di là del
grafema, prima e dopo il confine dell’unità alfabetica, ritessendo la trama del
linguaggio attraverso istintivi assestamenti del materiale deflagrato, dunque
concepito come continuo .
e. Linearità del messaggio. Il
segno verbale si dipana su un ordine
temporale univoco e irreversibile. La posizione di ciascun elemento
rispetto alla linea del tempo (rispetto alla “catena parlata” nel suo decorso
cronologico) non è mai irrilevante per la trasmissione del significato; e in
scrittura fonetica tale temporalità viene ricodificata nello spazio: per le
lingue occidentali, lungo un percorso lineare che va da sinistra a destra e, se
è necessario, dall’alto in basso.
A questo principio tutta la ricerca poetico-visuale ha opposto un netto
rifiuto, innalzando a propria norma ineludibile la “simultaneità della
fruizione” che caratterizza il segno iconico. Ma ciò non è avvenuto nella
stessa misura e nello stesso modo: dalle Tavole
parolibere di Marinetti, che mediano dal modello pittorico l’idea di
distruzione del tempo, al Coup de dés
mallarmeano, che si propone quale poema a più direzioni di lettura, fino
all’uso dell’immagine fotografica in certa produzione degli anni settanta, il
significato assunto dal concetto di “percezione simultanea” ha conosciuto
variazioni notevolissime. Ad ogni buon conto, è opportuno avvisare che la
realizzazione del progetto ha per lo più trascurato un nesso cruciale, il solo
che nel sistema della scrittura garantisca la linearità del messaggio, vale a
dire l’ortogonalità dello spazio. Si consideri, quale esempio, ancóra una volta
un testo concretista:
f o r m a
r e f o r m a
d i
s f o
r m a
t r
a n s
f o r
m a
d i
s f o
r m a
r e f o r m a
f o r m a
Come si “vede” bene, la leggibilità di questo brano di José Lino Grünewald
(1959) dipende strettamente dalla disposizione seriale dei sintagmi: un
medesimo monema può generare una serie di permutazioni semantiche
esclusivamente se noi siamo in grado di lèggere la sequenza dall’alto in basso
o viceversa. Certo, le possibili direzioni, invece di una, sono due... Allo
stesso titolo, nel già citato Black Block
di Finlay saranno addirittura quattro. Il messaggio non si costruisce più in
uno spazio lineare univoco e irreversibile, ma, ciò non di meno, la
simultaneità percettiva è più apparente che reale: occorre comunque procedere
da un punto all’altro della pagina.
Questo vale, in una certa misura, anche per i testi visuali del primo Zeroglifico (1966), giacché in essi —
benché non vi siano affatto parole intere e nemmeno lettere alfabetiche
complete — permane la disposizione ortogonale degli elementi segnici. Solo con
le nuove sei tavole dell’edizione americana del 1977, Spatola si è definitivamente
lasciato alle spalle l’impasse. Qui il frammento grafemico fluttua liberamente
in uno spazio indefinito, o meglio ri-definito
a partire dalle esigenze di una fruizione istantanea. Il rapporto tra
bianchi e neri è determinato da attenzioni di carattere principalmente ottico,
e lo stesso chiasmo tra tentazione di lettura e rinuncia alla decifrazione si
costruisce non attraverso il riconoscimento di singoli percorsi orientati, ma
piuttosto secondo le movenze ritmiche e quasi coreografiche della pagina globale.
L’ortogonalità è negata nei suoi fondamenti: emancipandosi da essa, il testo si
libera anche dai retaggi dello schema gnoseologico più coercitivo che la
razionalità occidentale abbia escogitato. Dal modello Mondrian siamo trascorsi
al modello Malevič. Ovvero, muovendo dal “cubismo” della poesia concreta,
Spatola è approdato a una sua speciale versione di “suprematismo” del grafema[viii].
[i] Senza nulla voler togliere alla
costitutiva differenza tra poesia
comunemente intesa e poesia visuale, si potrebbe riflettere, ad esempio, su
questa affermazione di Paul Valéry: «Provatevi a consultare la vostra
esperienza: scoprirete che se noi comprendiamo gli altri e se gli altri comprendono
noi, ciò avviene grazie alla celerità del nostro passaggio attraverso le
parole. Non bisogna attardarsi su di esse, pena il constatare come il discorso
più chiaro si trasformi in un enigma, in un miraggio più o meno
complesso[...]. Nelle adibizioni pratiche o astratte del linguaggio, la
forma, vale a dire la fisicità, la capacità sensibile e l’atto stesso del
discorso, non si conservano; la forma
non sopravvive alla comprensione ma si dissolve in chiarezza; ha agito e
svolto il suo compito, ossia ha fatto capire; il ciclo della sua esistenza è
compiuto. Invece non appena la forma sensibile, grazie all’effetto che essa
produce, acquista un’importanza tale da imporsi all’attenzione e da farsi,
in qualche modo, rispettare (e non solo notare e rispettare, ma desiderare,
e perciò riprendere) —allora qualche cosa di nuovo sta per prodursi: ci siamo
inavvertitamente trasformati, siamo pronti a vivere, a respirare, a pensare
in base a uno statuto diverso e secondo norme che non appartengono più all’ordine
pratico [...]: siamo entrati nell’universo poetico» (P.VALERY, Poesia e pensiero astratto, in Varietà, Rizzoli, Milano, 1971).
[ii] Si vedano sopra tutto le Tavole parolibere (1915-19) di
Marinetti, nelle quali la struttura grafica — riprendendo esperimenti già
tentati con minor audacia nelle Parole in
libertà — si incarica di far coagulare al proprio interno (anche) evenienze
tipiche del “parlato”. Cfr. L.BALLERINI, La
piramide capovolta, Marsilio, Venezia, 1975.
[iii] Certamente quello della “referenzialità interna”
del segno iconico non è affatto un problema risolto. Basterebbe considerare le
argomentazioni che contro l’ipotesi ha sollevato la moderna semiotica
americana. Tuttavia appare altrettanto discutibile che il linguaggio iconico
possa dirsi semplicemente convenzionale, e bisogna ammettere che per esso, se
non altro, la questione di un eventuale rapporto di “somiglianza” tra significante
e significato si pone.
[iv] Come è noto, il Cratilo di Platone ipotizza e difende l’origine causale,
onomatopeica, del linguaggio, suggerendo un impiego assai curioso e
suggestivo dell’etimologia.
[v] A.SPATOLA, Zeroglifico, Sampietro, Bologna, 1966. Poi, ristampa senza
variazioni, Geiger, Torino, 1975. Infine, con l’aggiunta di sei tavole
inedite, The Red Hill Press, Los Angeles & Fairfax, 1977.
[vi] Si vedano, a tale proposito, le
utilissime distinzioni interpretative proposte da G.NICCOLAI nella sua
introduzione alla seconda edizione di Zeroglifico
sopra citata.
[vii] Citato da G.NICCOLAI, idem.
[viii] Cfr. anche, intorno a questa
affermazione, il mio Zeroglifico, ipotesi
per un suprematismo grafematico, in Adriano
Spatola, Campanotto Editore, Udine, 1986.
Iscriviti a:
Post (Atom)