domenica 28 maggio 2017

LINGUISTICA E POESIA CONCRETA

Qualche nota intorno allo "Zeroglifico" di Adriano Spatola

[1989] 



La linguistica strutturale individua per il segno verbale cinque attributi di fondo, in parte condivisi con altri sistemi segnici, in parte esclusivi della parola e dei suoi specifici procedimenti. D’altro canto, la teoria della verbovisualità — cosí come viene a proporsi nella seconda metà del nostro secolo, quindi dalla nascita del “concretismo” in poi — attua un violento attacco ai metodi della scrittura classica, con il chiaro scopo di portare alle estreme conseguenze ciò che io credo si possa interpretare quale vocazione latente della poesia [i]. Pur mantenendo ben ferma la centralità dell’elemento-parola, la poesia concreta si definisce, infatti, nei termini di una crisi del sistema, poiché oscilla tra l’ideologia dell’interferenza con altri tipi di comunicazione (primo fra tutti il linguaggio iconico) e la tensione verso il dissolvimento globale del segno nella nube di un impiego indeterminato, estraneo alle crucialità del “codice”.
Più in particolare, e con maggiore esattezza, occorre dire che laddove il codice è forte — ossia vincolante — il concretismo cospira a misconoscerne l’applicabilità, cosí da negarlo in quanto evento normativo; mentre, per contro, rispetto ai nessi nei quali il codice agisce poco o nulla (o comunque risulta meno determinante) esso sembra intenzionato a recuperarne la presenza piena. Un paradosso solo apparente: giacché il bersaglio scelto, ad ogni modo, è il sistema della scrittura che la tradizione ci consegna.
Ciò che mi preme qui di dimostrare — utilizzando come punti di riferimento la “base” originaria del concretismo da un lato, la posizione “avanzata” di Adriano Spatola dall’altro — è che le cinque proprietà segnalate dai linguisti contribuiscono a formare altrettanti sustrati problematici di grande rilievo, assolutamente imprescindibili se si vuol comprendere il ruolo storico della poesia visuale.

a. Impiego di elementi fonici non codificabili. E’ un tratto distintivo della comunicazione verbale vera e propria (ossia del segno fonetico) che trova poca corrispondenza nell’ipercodice della scrittura. Quest’ultimo, essendo nient’altro che ulteriore codificazione di un sistema preesistente, tralascia per propria natura i cosí detti “fatti sovrasegmentali”: il tono della voce, le variazioni volumetriche, le pausazioni significative, gli accenti locali, i lapsus, le imperfezioni sintattiche e di pronuncia, ecc.
E’ qui che la poesia concreta, sulla scorta di certe indicazioni del futurismo e del dadaismo[ii], si pone in competizione con il livello primario della fonesi e tenta di recuperare alla scrittura possibilità espressive che parrebbero esserle precluse. Che i caratteri prosodici della poesia classica — verso, ritmo, rima, assonanza, suddivisioni strofiche — possano ammettere risvolti di rimando alla sovrasegmentalità del “parlato” (e forse addirittura origini ad essa collegate) è dato acquisito. Ma il concretismo agisce, da tale punto di vista, verso una risemantizzazione “normativa” della struttura tipografica. La rottura dell’unità minima del verso non deve trarre in inganno. E’ proprio il rigetto di regole standardizzate nella tradizione (e ormai lontane dal loro iniziale — plausibile — “motivo”) che permette ai vari Gomringer, De Campos, Pignatari, un controllo maggiore della semiosi scritturale e, in definitiva, la possibilità di recuperare ad essa almeno una parte di ciò che il suono “può dire”.
Al di là di qualsivoglia intenzione referenziale — comunque non saliente nelle pratiche del concretismo — sta di fatto l’incremento della capacità significante della parola scritta. La scelta di utilizzare esclusivamente la tipografia, per lo più con segni esteticamente neutri, tipica della prima stagione concreta, dal 1952 al 1958 circa, si spiega proprio in questa maniera: la grafia manuale, in quanto portatrice di istanze individuali e psicologiche, è “sovrasegmentale” rispetto alla scrittura: ma tale devianza rimane tutta inclusa nei limiti storici dell’ipercodice, e costituisce al più un elemento di disturbo nei confronti di una ristrutturazione scientifica del medesimo.

b. Arbitrarietà e convenzionalità del segno. A prescindere dal “caso limite” dell’onomatopea — del quale, non “a caso” i futuristi fecero un casus belli — il linguaggio verbale, e con esso la scrittura fonetica, va del tutto esente dal sospetto di referenzialità interna (ossia di intima motivazione) che in qualche modo caratterizza, invece, il segno iconico[iii]. La poesia dell’avanguardia storica, nella sua più o meno spiccata tendenza a conciliare codice verbale e codice plastico, ovviamente prende di mira l’idea della assoluta convenzionalità del linguaggio. Da Velimir Chlebnikov, pronto a far discendere la forma stessa dell’alfabeto da princípi analogici che regolerebbero l’universo, a Ezra Pound, che si serví di supporti ideogrammatici per “ancorare” il senso a qualcosa di meno labile che un puro arbitrio, la questione del reperimento di un “rapporto causale” tra espressione e contenuto è nucleo elementare di tutta la ricerca poetica del ventesimo secolo.
Bisogna però avvertire che proprio i fondatori del concretismo si disinteressano alquanto del problema. Ad esempio, il celebre “pezzo” di Gomringer intitolato al Silenzio (1953) impiega vie non mimetiche, e nemmeno direttamente analogiche, per attuare una trasmissione del significato attraverso la messa a vista del corpo del significante:
           
                                          Silenzio  Silenzio  Silenzio
                                           Silenzio  Silenzio  Silenzio
                                           Silenzio                    Silenzio
                                           Silenzio  Silenzio  Silenzio
                                           Silenzio  Silenzio  Silenzio

Qui lo scarto visuale, e cioè il “vuoto” che sta al centro della composizione, produce l’evocazione “altra”, ma forse la sola autentica, del concetto che il segno verbale cerca di veicolare (e tuttavia trasgredisce, parlando). Tale scarto non imita alcunché: risponde a convenzione almeno quanto la scrittura. Occorrerà attendere Ian Hamilton Finlay, con il suo Black Block, perché la poesia concreta inizi ad occuparsi — attraverso espedienti tautologici — di “necessità” e di “causalità” del rapporto segnico.
Ad ogni modo, l’accentuazione degli aspetti concreti del materiale non è affatto implicitamente portatrice di una ideologia “creatilea” del medesimo[iv]. Nell’età contemporanea il linguaggio iconico, attraverso l’astrattismo, si è a sua volta emancipato da ogni obbligo imitativo: cosí una corretta interpretazione verbovisuale della scrittura può andare del tutto scevra da implicazioni mimetiche ed essere invece perfettamente accordata con (nuove e diverse) convenzioni codificanti.

c. Strutturalità del significante. Ovvero presenza della doppia articolazione, il rapporto tra un “sottosistema” fonematico e un “sovrasistema” monematico. Su questo punto interviene la grande novità di Adriano Spatola. Non che prima di lui, e accanto a lui, non si abbiano (avuti) prodotti letterari capaci di mettere in crisi la strutturazione del significante in “unità minime di suono dotate di senso” (monemi) a sua volta formate di “unità minime di suono non dotate di senso” (fonemi). Ma con Spatola la decostruzione è affrontata in maniera quanto mai precisa: attraverso un incessante lavoro di erosione, pragmaticamente realizzato mediante le forbici, vengono aboliti gli eventi che nella scrittura corrispondono alle unità di suono, i grafemi (più banalmente: segni alfabetici). E il superamento della “barriera” del grafema diviene irrinunciabile proprio rispetto a una possibile critica radicale del concretismo, delle sue finalità e dei mezzi impiegati per conseguirle. La prima edizione di Zeroglifico [v] già evidenziava tale superamento, ossia si basava sulla rivoluzionaria scomposizione della lettera alfabetica in entità minori, frammenti appena riconoscibili di un materiale che ripudia la sua stessa leggibilità: la quale può essere restaurata solo per via intuitiva, talora grazie alla forza propria di un segno mantenuto al limite (i cui tratti, vale a dire, mantengono qualcosa del grafema), altrove per associazione di idee o per induzione critica[vi]. E ciò nonostante l’appartenenza delle tavole di Spatola all’ambito poesia concreta è fuori discussione, dato che la materia da lui impiegata è sempre assolutamente verbale, e ancor più è sempre assolutamente tipografica.
Ma una simile materia, fatto altrettanto indiscutibile, abdica non solo alle proprie facoltà semantiche tradizionali, ma perfino alla propria decifrabilità immediata. Le pre-forme di cui sono composti i “testi” di Spatola stanno alle lettere conchiuse come tracce indeterminate del campo fonetico stanno ai segnali sonori strutturati in fonemi. Sempre che sia possibile, appunto, trasferire istanze relative al piano orale su quello dei fenomeni grafici: ma va da sé che solo tale trasposizione può asseverare lo statuto linguistico-verbale degli “zeroglifici”, i quali, perciò, si fanno portatori di una metaforicità non solo (genericamente) scritturale, ma più precisamente fonetica. La dialettica che instaurano, tra superamento della doppia articolazione del segno e recupero metaforico del suono, individua una nuova poetica concretista, capace tra l’altro di tradurre in ritmo musicale l’andamento visivo della “frase” dealfabetizzata. Secondo lo stesso Spatola si tratta di creare un

«mosaico di frammenti decontestualizzati [che] si costruiscono nello spazio bidimensionale come fraseggio, nel senso che si dà in musica a questo termine»[vii].


d. Carattere “discreto” del segno. Il principio della strutturalità del significante e della sua costruzione a partire da unità combinate tra di loro comporta l’esclusione di qualsiasi pertinenza dei fatti dimensionali e quantitativi. In altre parole, la macchina del linguaggio verbale ignora totalmente ragioni di proporzione tra grandezze del significante e grandezze del significato. Essa funziona come un insieme di entità combinatorie sempre uguali a se stesse se prese singolarmente: ovvero, con terminologia tratta dall’informatica, come sistema “digitale” e non “analogico”.
Il lavoro di Spatola, anche in questo caso, procede contro il principio normale della lingua, e si offre (semmai) proprio nei modi di un sistema analogico. L’antilinguaggio dello Zeroglifico, evocando a livello programmatico l’idea di una comunicazione realizzata per simboli visuali (geroglifico, sacra incisione) e insieme il grado “zero” della scrittura, instaura su un andamento pseudo-musicale il proprio continuum espressivo. Ogni segno è solo forzatamente un’unità (cosí come in musica solo forzatamente si può parlare di singola nota) e la tavola dà luogo a un tutto unitario: all’interno del quale appaiono segni talmente con/fusi tra loro da risultare completamente inscindibili. Il poeta ha lavorato di “composizione”, dunque ha giustapposto entità frammentarie ottenendone una specie di somma. Ma nel suo lavoro ogni parte vive della relazione con le altre, e il carattere strutturale del “testo” è recuperato su un piano diverso da quello che compete alla parola. E’ piuttosto la medesima strutturalità della grande pittura astratta, da Malevič a Matisse. La colla e le forbici permettono a Spatola di intervenire al di là del grafema, prima e dopo il confine dell’unità alfabetica, ritessendo la trama del linguaggio attraverso istintivi assestamenti del materiale deflagrato, dunque concepito come continuo .

e. Linearità del messaggio. Il segno verbale si dipana su un ordine temporale univoco e irreversibile. La posizione di ciascun elemento rispetto alla linea del tempo (rispetto alla “catena parlata” nel suo decorso cronologico) non è mai irrilevante per la trasmissione del significato; e in scrittura fonetica tale temporalità viene ricodificata nello spazio: per le lingue occidentali, lungo un percorso lineare che va da sinistra a destra e, se è necessario, dall’alto in basso.
A questo principio tutta la ricerca poetico-visuale ha opposto un netto rifiuto, innalzando a propria norma ineludibile la “simultaneità della fruizione” che caratterizza il segno iconico. Ma ciò non è avvenuto nella stessa misura e nello stesso modo: dalle Tavole parolibere di Marinetti, che mediano dal modello pittorico l’idea di distruzione del tempo, al Coup de dés mallarmeano, che si propone quale poema a più direzioni di lettura, fino all’uso dell’immagine fotografica in certa produzione degli anni settanta, il significato assunto dal concetto di “percezione simultanea” ha conosciuto variazioni notevolissime. Ad ogni buon conto, è opportuno avvisare che la realizzazione del progetto ha per lo più trascurato un nesso cruciale, il solo che nel sistema della scrittura garantisca la linearità del messaggio, vale a dire l’ortogonalità dello spazio. Si consideri, quale esempio, ancóra una volta un testo concretista:

f o r m a
r e f o r m a
d  i  s  f  o  r  m  a
t  r  a  n  s  f  o  r  m  a
d  i  s  f  o  r  m  a
r e f o r m a
f o r m a
   
Come si “vede” bene, la leggibilità di questo brano di José Lino Grünewald (1959) dipende strettamente dalla disposizione seriale dei sintagmi: un medesimo monema può generare una serie di permutazioni semantiche esclusivamente se noi siamo in grado di lèggere la sequenza dall’alto in basso o viceversa. Certo, le possibili direzioni, invece di una, sono due... Allo stesso titolo, nel già citato Black Block di Finlay saranno addirittura quattro. Il messaggio non si costruisce più in uno spazio lineare univoco e irreversibile, ma, ciò non di meno, la simultaneità percettiva è più apparente che reale: occorre comunque procedere da un punto all’altro della pagina.
Questo vale, in una certa misura, anche per i testi visuali del primo Zeroglifico (1966), giacché in essi — benché non vi siano affatto parole intere e nemmeno lettere alfabetiche complete — permane la disposizione ortogonale degli elementi segnici. Solo con le nuove sei tavole dell’edizione americana del 1977, Spatola si è definitivamente lasciato alle spalle l’impasse. Qui il frammento grafemico fluttua liberamente in uno spazio indefinito, o meglio ri-definito a partire dalle esigenze di una fruizione istantanea. Il rapporto tra bianchi e neri è determinato da attenzioni di carattere principalmente ottico, e lo stesso chiasmo tra tentazione di lettura e rinuncia alla decifrazione si costruisce non attraverso il riconoscimento di singoli percorsi orientati, ma piuttosto secondo le movenze ritmiche e quasi coreografiche della pagina globale. L’ortogonalità è negata nei suoi fondamenti: emancipandosi da essa, il testo si libera anche dai retaggi dello schema gnoseologico più coercitivo che la razionalità occidentale abbia escogitato. Dal modello Mondrian siamo trascorsi al modello Malevič. Ovvero, muovendo dal “cubismo” della poesia concreta, Spatola è approdato a una sua speciale versione di “suprematismo” del grafema[viii]. 









[i] Senza nulla voler togliere alla costitutiva differenza tra poesia comunemente inte­sa e poesia visuale, si potrebbe riflettere, ad esempio, su questa affermazione di Paul Valé­ry: «Provatevi a consultare la vostra esperienza: scoprirete che se noi com­pren­dia­mo gli altri e se gli altri com­prendono noi, ciò avviene grazie alla ce­lerità del nostro pas­saggio attraverso le parole. Non bi­so­gna attardarsi su di es­se, pena il constatare come il discor­so più chiaro si trasformi in un enigma, in un mirag­gio più o meno complesso[...]. Nelle adibizioni pratiche o astratte del lin­guag­gio, la forma, vale a dire la fi­sicità, la capa­cità sensibile e l’atto stesso del discor­so, non si conser­vano; la for­ma non soprav­vive alla com­prensione ma si dissolve in chiarezza; ha agito e svolto il suo compito, ossia ha fatto capire; il ciclo della sua esi­stenza è com­piu­to. Invece non appena la for­ma sen­sibile, grazie all’effetto che essa produce, acqui­sta un’importanza tale da imporsi al­l’at­ten­zione e da farsi, in qualche modo, ri­spettare (e non solo no­tare e rispettare, ma desi­derare, e per­ciò riprendere) —allora qualche cosa di nuo­vo sta per prodursi: ci sia­mo inavvertitamente tra­sfor­mati, siamo pronti a vivere, a respi­rare, a pensare in base a uno statuto diverso e secondo norme che non ap­partengono più all’or­dine pratico [...]: siamo entrati nell’universo poetico» (P.VALE­RY, Poesia e pensiero astrat­to, in Varietà, Rizzoli, Milano, 1971).
[ii] Si vedano sopra tutto le Tavole parolibere (1915-19) di Marinetti, nelle quali la struttura grafica — riprendendo esperimenti già tentati con minor audacia nelle Parole in libertà — si in­carica di far coagulare al proprio interno (anche) eve­nienze tipiche del “parlato”. Cfr. L.BAL­LE­RINI, La piramide capovolta, Marsilio, Ve­nezia, 1975.
[iii] Certamente quello della “referenzialità interna” del segno iconico non è affatto un problema risolto. Basterebbe considerare le argomentazioni che contro l’ipotesi ha sol­levato la moderna semiotica americana. Tuttavia appare altrettanto discutibile che il linguaggio iconico possa dirsi semplicemente convenzionale, e bisogna ammettere che per es­so, se non altro, la questione di un eventuale rapporto di “somiglianza” tra signi­fi­cante e si­gnificato si pone.
[iv] Come è noto, il Cratilo di Platone ipotizza e difende l’origine causale, onomatopeica, del lin­guag­gio, suggerendo un impiego assai curioso e suggestivo dell’etimo­lo­gia.
[v] A.SPATOLA, Zeroglifico, Sampietro, Bologna, 1966. Poi, ristampa senza variazioni, Geiger, To­ri­no, 1975. Infine, con l’aggiunta di sei tavole inedite, The Red Hill Press, Los Angeles & Fairfax, 1977.
[vi] Si vedano, a tale proposito, le utilissime distinzioni interpretative proposte da G.NICCO­LAI nella sua introduzione alla seconda edizione di Zeroglifico sopra citata.
[vii] Citato da G.NICCOLAI, idem.
[viii] Cfr. anche, intorno a questa affermazione, il mio Zeroglifico, ipotesi per un supre­matismo gra­fe­ma­tico, in Adriano Spatola, Campanotto Editore, Udine, 1986.