Per
chi (come me) è legato da un profondo affetto sedimentato nella memoria, la piú
intima e remota, quella dell’infanzia, per chi ne ricorda ancora il respiro
ansimante, quasi un sibilo a fior di labbra, ma sempre pronto a mimetizzarsi in
uno zufolo canoro, per chi lo rivede oggi nelle nebbie del ricordo come in un
alone di magia e d’altri mondi, cosí lontani, con il mozzicone tenuto tra i
denti e forse già spento (mi par di poter dire: nazionali semplici, senza
filtro), con la tavolozza poggiata su un ripiano e martoriata di paste
cromatiche, macchia sopra macchia, con il pennello vibrante tra le dita e con
quello sguardo benigno (che mai cancelleranno incuria o tempo) per il nipotino
di otto anni inopinatamente piombato nella stanza adibita a studio, per chi lo
ha vissuto e ancora lo vive e lo “sente” in quel modo, sarà ben difficile
tracciare le linee di un plausibile discorso su Emilio Sproccati, pittore
contadino e uomo raffinato, appassionato d’arte fino allo spasimo, e malato di
dolcezza, di stramberia, di alterità. Era nato figlio di mezzadri, e destinato
alla vita di tutti i suoi simili, ma fin da adolescente esorbitò – non è dato
comprendere perché – da quel destino e da quegli orizzonti fatti di schiene flesse
e di scarpe infangate, di aie e di fienili, di puzzo di sterco di vacca e di meravigliosi
profumi di frutta. Emilio, pecora nera nel gregge di famiglia, imprevedibilmente
prese a guardar pittori, a leggere libri e a tentare la via del decoratore, fino
a fuggire in quella che per lui era una metropoli ricca d’opportunità, Bologna,
per poi tornare al paese forzato dalla fame e dalla disperazione. Ma, ecco, egli
non si diede per vinto. Si fingeva falegname (per la donna di cui si era
innamorato e per i figli da lei partoriti) ma faceva il pittore, e per tutti,
in fondo, nel paese, era proprio “il pittore”. E da buon pittore, che deve
capire la pittura, si recava alle Biennali veneziane su una lambretta
dell’immediato dopoguerra, dove (corre voce) vide Pollock e lo trovò, come è
ovvio, incomprensibile. Ma è sicuro che a un certo punto si imbatté in Morandi
e lo trovò intrigante, e che prima ancora aveva veduto De Pisis, apprezzandolo.
Dipingeva tutti i giorni, specie nei festivi, e forse attraverso le immagini dei
suoi quadri cercava il senso riposto dei luoghi in cui era nato, dei pioppi e
dei salici, delle case coloniche, delle strade sterrate serpeggianti ai bordi
dei canali, verso il Palazzone o la Vallazza. E allestiva – proprio come
Morandi e De Pisis – vecchie brocche un poco rovinate, lattine di olio di semi
Topazio e aringhe sulla carta gialla del pescivendolo, provvisoriamente sottratte
alla padella per essere elette a idoli del quotidiano, a modelli dignitosi di
natura morta, che per lui era piú viva di tutti i viventi che lo circondavano
(senza capirlo). Un uomo strano e straordinario, un artista autentico – se
questa parola ha ancora un senso – in un mondo che di autentico cominciava a
non aver piú nulla. Un uomo assurdo, venuto da chissà dove e capitato qui tra
noi cosí, come una meteora, o piú semplicemente per uno di quei misteri dell’umano
che non hanno spiegazione alcuna.
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