Si tratta
dell’occasione in cui sentii parlare per la prima volta del poeta: era il 1978
o il 1979. E fu quando, durante una certa zotica cena di gruppo, di quelle
classiche della mondanità artistico-espositiva-bianalesca, venne chiesto al
nostro anfitrione – che (guarda caso) era proprio Mario Diacono, allora
titolare di uno spazio bolognese deputato alla pittura d’avanguardia — venne
chiesto, dicevo, quale fosse, al di lui avviso, il piú grande scrittore italiano
del secolo. E Diacono, di cui ero amico e conoscevo la biografia, invece di
rispondere (come a me pareva logico) con il nome di Ungaretti, sibilò d’un
fiato un suono che nessuno, in quel consesso un poco idiota, conosceva,
generando come d’incanto un brivido
di smarrimento collettivo. Ricordo che io, ventenne ingenuo, non seppi pensare
ad altro che alla curiosa (parziale) omonimia con uno degli allora piú
glorificati figuri della canzonetta italiana popolare, a me odiosissimo
(naturalmente): il Villa sí, ma Claudio e non Emilio, come è ovvio.
Il giorno dopo, o
comunque di lí a poco, pretesi esaurienti illustrazioni dal Diacono medesimo,
ed ebbi cosí notizie di prima mano sull’uomo e sull’artista. Mi fu segnalata
l’esistenza dell’edizione Feltrinelli dell’Odissea,
con lo stupefacente delirio filologico che introduce la sorprendente traduzione
villana. Mi regalò anche la plaquette Verboracula,
dall’originale e oggi introvabile collezione di «Tau/ma», rivista ch’era
diretta dallo stesso Diacono, la quale plaquette suscitò in me un entusiasmo
forse disdicevole, e di cui reca fin troppo palese la nefasta traccia un testo
che scrissi allora e che pubblicai qualche anno dopo, nella mia prima
raccolticcia di poesiucole, quella spatolata da Adriano nelle sue edizioni di
«Tam Tam» (1983).
In quegli anni mi
dedicai a reperire del Gran Villa tutto ciò che potei, divenendo in breve un
suo totale apologeta, e cercai anche di parlarne piú che mi riusciva con tutti
coloro che minimamente reputavo degni di udirne il Verbo senza stramazzare al
suolo, facendo in qualche occasione però impazzire le migliori tra le mie
studentesse dell’Accademia di Belle Arti presso cui insegnavo (a Venezia), con
la lettura — ad esempio — degli hypno-eroto-anatomico-machico testi dedicati a
Burri, della cui combustione esistenzial-pittorica Villa fu il primo grande
scopritore in assoluto. —> CIT. DAGLI ATTRIBUTI, su BURRI. Attributi dell’arte odierna... Sí, gli
attributi e i controfiocchi invero, ma di chi gli ha scritti!
Poi lo conobbi,
anche, il nostro, e fu nel 1985: fu al Teatro Valli di Reggio Emilia, durante
l’inaugurazione (ancóra) di una mostra. Il mostro me lo presentò Claudio
Parmiggiani, un altro amico dell’epoca, vedendo che guardavo con stupore un
uomo pasciuto e dall’aria decisamente gaudente che già qualcun altro aveva
salutato come il poeta, e che mi riusciva cosí diverso dall’immagine fisica che
arbitrariamente me ne ero costruita a partire dai suoi testi, barocchi quanto
basta, ma altresí sinuosi, appuntiti, acutissimi, al limite ascetici. Villa fu
con me (come con tutti, credo) drasticamente delizioso: mi magnificò, mentre
insieme le degustavamo, le virtú apotropaiche delle “creste di gallo”, una
pietanza da buffet emiliano che, dopo quella volta a Reggio, non ho piú assaggiato
né visto; e mi espose, in mezz’ora, alcune colossali teorie relative
all’aramaico e al suo rapporto con il sanscrito, alla mitologia greca, al
significato di certe metafore oscene nel Vangelo di San Giovanni, agli equivoci
della filologia applicata ai testi biblici, alle misteriose relazioni tra la
mistica persiana e la lingua dei latini, e ad alcuni altri problemucci di tal
fatta! Ma, si noti bene, allorché la sapienza brillava oracolare e fascinosa in
ogni villana postilla, il tono e il lessico erano tuttavia di una colloquialità
amiconesca: senza pedanteria alcuna, niente di didattico o di compiaciuto, e
anzi con uno tocco soave nell’esposizione che gli invidiai immediatamente
(insieme alla sua caotica cultura).
Cosí parlò Emilio
Villa: sovente biascicando le sillabe intorno a qualche ghiottoneria nel
frattempo masticata, interrotto solo dall’orlo del bicchiere sulle labbra, e
sempre del resto intercalando osservazioni sulla qualità delle vivande di cui
anch’io, nel frattempo, mi ingozzavo come nella gioia di un volontario
naufragio. Villa parlò. E poi disse ancóra qualcosa intorno a Mallarmé, e
quello, ve l’assicuro, fu come il culmine del possibile.
E oggi, vent’anni
dopo – mentre lui, scontato un indegno purgatorio di vita vegetativa tra
brodetti scialbi e (presumo) ignominiosi clisteri, alla fine, grazie a Dio, se
ne è andato in un turbine di ninfe dalle vulve fanciullesche – ecco, piano
piano, bisbiglio dopo bisbiglio, voce dopo voce, articolo dopo articolo, libro
dopo libro, convegno dopo convegno (come giustamente qui si testimonia), la
levatura immensa del poeta nostro del secondo Novecento comincia a emergere
anche nella coscienza sporca dei chierici di regime e degli intellettuali da
guinzaglio. Ed è già qualcosa... E non è che l’inizio... Che aggiungere?
Prosit, Emilio!
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