domenica 28 maggio 2017

PER EMILIO VILLA – CONVEGNO DI FIRENZE 2004





Si tratta dell’occasione in cui sentii parlare per la prima volta del poeta: era il 1978 o il 1979. E fu quando, durante una certa zotica cena di gruppo, di quelle classiche della mondanità artistico-espositiva-bianalesca, venne chiesto al nostro anfitrione – che (guarda caso) era proprio Mario Diacono, allora titolare di uno spazio bolo­gnese deputato alla pittura d’avanguardia — venne chiesto, dicevo, quale fosse, al di lui avviso, il piú grande scrittore italiano del secolo. E Diacono, di cui ero amico e conoscevo la biografia, invece di rispondere (come a me pareva logi­co) con il nome di Ungaretti, sibilò d’un fiato un suono che nessuno, in quel consesso un poco idiota, conosceva, generando come d’incanto un brivido di smarrimento collettivo. Ricordo che io, ventenne ingenuo, non seppi pensare ad altro che alla curiosa (parziale) omonimia con uno degli allora piú glorificati figuri della canzonetta italiana popolare, a me odiosissimo (naturalmente): il Villa sí, ma Claudio e non Emilio, come è ovvio.
Il giorno dopo, o comunque di lí a poco, pretesi esaurienti illustrazioni dal Diacono medesimo, ed ebbi cosí notizie di prima mano sull’uomo e sull’artista. Mi fu segnalata l’esistenza dell’edizione Feltrinelli dell’Odissea, con lo stupefacente delirio filologico che introduce la sorprendente traduzione villana. Mi regalò anche la plaquette Verboracula, dall’originale e oggi introvabile collezione di «Tau/ma», rivista ch’era diretta dallo stesso Diacono, la quale plaquette suscitò in me un entusiasmo forse disdicevole, e di cui reca fin troppo palese la nefasta traccia un testo che scrissi allora e che pubblicai qualche anno dopo, nella mia prima raccolticcia di poesiucole, quella spatolata da Adriano nelle sue edizioni di «Tam Tam» (1983).
In quegli anni mi dedicai a reperire del Gran Villa tutto ciò che potei, divenendo in breve un suo totale apologeta, e cercai anche di parlarne piú che mi riusciva con tutti coloro che minimamente reputavo degni di udirne il Verbo senza stramazzare al suolo, facendo in qualche occasione però impazzire le migliori tra le mie studentesse dell’Accademia di Belle Arti presso cui insegnavo (a Vene­zia), con la lettura — ad esempio — degli hypno-eroto-anatomico-machico testi dedicati a Burri, della cui combustione esistenzial-pittorica Villa fu il primo grande scopritore in assoluto. —> CIT. DAGLI ATTRIBUTI, su BURRI. Attributi dell’arte odierna... Sí, gli attributi e i controfiocchi invero, ma di chi gli ha scritti!
Poi lo conobbi, anche, il nostro, e fu nel 1985: fu al Teatro Valli di Reggio Emilia, durante l’inaugurazione (ancóra) di una mostra. Il mostro me lo presentò Claudio Parmiggiani, un altro amico dell’epoca, vedendo che guardavo con stupore un uomo pasciuto e dall’aria decisamente gaudente che già qualcun altro aveva salutato come il poeta, e che mi riusciva cosí diverso dall’immagine fisica che arbitrariamente me ne ero costruita a partire dai suoi testi, barocchi quanto basta, ma altresí sinuosi, appuntiti, acutissimi, al limite ascetici. Villa fu con me (come con tutti, credo) drasticamente delizioso: mi magnificò, mentre insieme le degustavamo, le virtú apotropaiche delle “creste di gallo”, una pietanza da buffet emiliano che, dopo quella volta a Reggio, non ho piú assaggiato né visto; e mi espose, in mezz’ora, alcune colossali teorie relative all’aramaico e al suo rapporto con il sanscrito, alla mitologia greca, al significato di certe metafore oscene nel Vangelo di San Giovanni, agli equivoci della filologia applicata ai testi biblici, alle misteriose relazioni tra la mistica persiana e la lingua dei latini, e ad alcuni altri problemucci di tal fatta! Ma, si noti bene, allorché la sapienza brillava oracolare e fascinosa in ogni villana postilla, il tono e il lessico erano tuttavia di una colloquialità amiconesca: senza pedanteria alcuna, niente di didattico o di compiaciuto, e anzi con uno tocco soave nell’esposizione che gli invidiai immediatamente (insieme alla sua caotica cultura).
Cosí parlò Emilio Villa: sovente biascicando le sillabe intorno a qualche ghiottoneria nel frattempo masticata, interrotto solo dall’orlo del bicchiere sulle labbra, e sempre del resto intercalando osservazioni sulla qualità delle vivande di cui anch’io, nel frattempo, mi ingozzavo come nella gioia di un volontario naufragio. Villa parlò. E poi disse ancóra qualcosa intorno a Mallarmé, e quello, ve l’assicuro, fu come  il culmine del possibile.
E oggi, vent’anni dopo – mentre lui, scontato un indegno purgatorio di vita vegetativa tra brodetti scialbi e (presumo) ignominiosi clisteri, alla fine, grazie a Dio, se ne è andato in un turbine di ninfe dalle vulve fanciullesche – ecco, piano piano, bisbiglio dopo bisbiglio, voce dopo voce, articolo dopo articolo, libro dopo libro, convegno dopo convegno (come giustamente qui si testimonia), la levatura immensa del poeta nostro del secondo Novecento comincia a emergere anche nella coscienza sporca dei chierici di regime e degli intellettuali da guinzaglio. Ed è già qualcosa... E non è che l’inizio... Che aggiungere? Prosit, Emilio!


                                                                                                        


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